Per capirlo basta tenere ferma la Costituzione, secondo cui nessun progetto di autonomia regionale, pur diretto ad offrire servizi più efficienti, può diventare lesivo dell`unitarietà dello Stato, dei principi di uguaglianza dei cittadini e di solidarietà tra territori che la caratterizzano.
Invece, la strada imboccata dal Governo, tenuto ormai sotto scacco dalla componente leghista, va in direzione opposta. In primo luogo perché prevede che le nuove competenze regionali siano sostenute da risorse stabilite, almeno inizialmente, sulla base della spesa storica, un criterio che, anziché fissare un livello minimo delle prestazioni uguale su tutto il territorio, fotografa semplicemente lo stato dell`arte, compresi i divari di spesa già oggi esistenti tra regioni settentrionali e meridionali.
In secondo luogo, l`accordo raggiunto lascia nell`incertezza la misurazione dei fabbisogni standard, rinviandola e legandola tra l`altro alla ricchezza della popolazione. A prevalere è insomma l`idea che la maggiore autonomia serva solo a trattenere il cosiddetto «residuo fiscale» e quindi a gestire più risorse. Che questo non sia l`unico modo di intendere l`autonomia regionale, peraltro, lo dimostra la differenza tra il progetto dell`Emilia Romagna, o la richiesta presentata anche da regioni meridionali come la Campania, e quelli elaborati dalle regioni Veneto e Lombardia, che invece il Governo sta prediligendo.
Nel progetto emiliano-romagnolo la questione del residuo fiscale non compare, dando per scontato l`integrale finanziamento delle funzioni pubbliche attribuite. Detto in parole povere: se alla regione viene attribuito, poniamo, l`ambito dell`istruzione professionale, le risorse che in precedenza lo Stato spendeva per quella funzione dovranno essere devolute alla regione, non un euro in più. Palesemente diverse sono invece le intenzioni degli amministratori leghisti, che in occasione del referendum prima, e della stesura del progetto poi, hanno preteso (è il caso del Veneto) di finanziare le funzioni che sarebbero state trasferite mediante i 9/10 del gettito riscosso nel territorio della regione per le principali imposte erariali, cioè Irpef, Ires e Iva.
Altro nervo scoperto sono le materie sulle quali verrà trasferita la competenza. L`Emilia Romagna – seguendo la ratio della norma costituzionale secondo cui una differenziazione delle funzioni della regione può considerarsi opportuna sulla base delle diverse vocazioni territoriali – ha limitato, motivandolo, l`ambito delle materie per le quali richiede particolari condizioni di autonomia. Veneto e Lombardia, nelle rispettive proposte, richiedono invece un rafforzamento dei propri poteri a tappeto in tutte le possibili materie previste dalla Costituzione.
Andare verso un rafforzamento delle autonomie regionali non è di per sé sbagliato, ma deve essere un percorso accessibile a tutte le regioni italiane, comprese quelle del Sud.
Quando invece sull`altare degli egoismi locali vengono sacrificati principi cardine come sussidiarietà, adeguatezza ed equità, il risultato è un pessimo servizio fatto al compimento dell`unità del Paese e alla sua modernizzazione, che passa inevitabilmente dall`unificazione economica di Nord e Sud.
Mi sembra di poter dire che oggi il Partito democratico sia l`unica forza politica che su questi temi si muova coerentemente nel solco della Costituzione, senza cadere nella trappola della contrapposizione tra un Nord produttivo ed efficiente e un Sud assistito, una contrapposizione su cui hanno costruito parte delle loro fortune elettorali recenti sia la Lega post-secessionista sia i Cinquestelle populisti in salsa «filoborbonica».
Perciò, prima di procedere alla valutazione e all`approvazione delle intese con le regioni che richiedono maggiori competenze, questo Governo dovrebbe riprendere e portare a termine il lavoro che è stato avviato negli scorsi anni per la definizione dei fabbisogni standard, dei Livelli essenziali delle prestazioni e dei fondi perequativi. E accanto a questo, proporre agli amministratori italiani una seria riflessione sul sistema delle autonomie locali, soprattutto perché interventi come la Legge Delrio su province e città metropolitane furono  concepiti nell’ambito di un processo complessivo di riforme,  anche costituzionali, che si è interrotto col referendum del dicembre 2016.

Anche sul regionalismo le forze dell’attuale maggioranza trovano più comodo e vantaggioso agitare bandiere piuttosto che costruire un progetto riformistico coerente e utile per il Paese, ma su temi di questa rilevanza per la democrazia e la crescita dell’Italia persino questo governo dovrebbe porsi il problema di scongiurare una prospettiva di rottura drammatica del patto sociale nazionale.  Di tutto questo il Partito democratico discuterà lunedì 18 febbraio al Senato alla presenza, oltre che di esperti, dei presidenti di regione Emilia Romagna, Piemonte, Umbria e Campania. Sarà l’occasione per ribadire al Governo che, a queste condizioni, gli uomini e le donne del Partito democratico restano pronti a dare il proprio contributo.


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