Il 19 maggio 2020 la prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha emanato un’ordinanza (la numero 9143) con la quale ha confermato la decisione della Corte di Appello di Lecce che aveva disposto l’allontanamento di un bambino dalla madre e la sua collocazione in una comunità con il padre, sul quale pendono ben tre procedimenti penali per violenza domestica contro la donna, sua ex convivente. E’ un’ordinanza che sta facendo molto discutere e che desta profonde perplessità, in un caso complesso ma paradigmatico. Per questo come Commissione di inchiesta sul Femminicidio e violenza di genere abbiamo approvato la richiesta di acquisizione degli atti.

Ma veniamo ai fatti. Il padre aveva proposto ricorso al Tribunale per i minorenni di Lecce chiedendo, per esercitare la sua responsabilità genitoriale, l’affidamento esclusivo del figlio, che viveva invece con la mamma, accusata di ostacolare la relazione con il bambino, il quale di fatto si rifiutava di vedere l’altro genitore. Secondo i legali del padre, la donna aveva evitato la procedura di conciliazione con l’ex convivente e non si dimostrava disponibile nel cercare di avvicinare padre e figlio. Secondo la donna, invece, che aveva denunciato l’uomo per reiterate violenze domestiche, il bambino si rifiutava di vedere il padre perché aveva assistito a numerosi episodi di violenza. La Corte di Appello di Lecce ha dato ragione all’uomo e collocato già da gennaio padre e figlio in una comunità educativa. Ora la sentenza della Cassazione conferma questa decisione, con motivazioni che sollevano dubbi e preoccupazioni.

La Cassazione mostra infatti di ritenere prevalente il “diritto alla bigenitorialità” rispetto al “superiore interesse del minore”, che invece è al centro del nuovo diritto di famiglia. Ciò che sembra venire trascurato è il fatto che, in questa vicenda, il padre è accusato di violenze nei confronti della ex convivente e del figlio, con il rilievo di “problematiche di tipo personologico” che necessitano “di adeguati interventi psico-terapeutici”. L’unico rilievo fatto alla madre è di essere chiusa al proposto percorso di mediazione con il padre e di condizionare il figlio. Ma occorre ricordare che la Convenzione di Istanbul vieta di ricorrere alla mediazione familiare in presenza di violenze domestiche, perché non si può costringere la vittima a sedere al tavolo di mediazione di fronte all’aggressore. Inoltre, perché possa parlarsi di condizionamento materno, occorre escludere che il minore abbia assistito alle violenze, visto che in caso di violenza assistita il rifiuto del figlio di frequentare il padre è totalmente giustificato.
Come Commissione ci riserveremo, come è dovuto, di compiere ulteriori approfondimenti sull’intera vicenda.

Ma in prima battuta rilevo tre questioni per me fondamentali. La prima: il diritto dell’adulto ad essere genitore sembra essere prevalente rispetto ai bisogni concreti del figlio e al suo diritto ad un’infanzia serena e a uno sviluppo psico-emotivo equilibrato. A livello normativo, un passo indietro di svariati decenni. Il figlio torna ad essere oggetto e non soggetto centrale nella separazione dei genitori. La seconda questione riguarda il mancato rispetto della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne che, come detto, vieta la mediazione in caso di violenza domestica e impone di considerare sia le madri che i figli vittime e soggetti che hanno insieme bisogno di protezione. E’ un fatto che la Convenzione di Istanbul, pilastro della legislazione di contrasto alla violenza contro le donne che l’Italia ha ratificato dal 2013, venga spesso di fatto inapplicata perché non è conosciuta, e questo è inaccettabile. La terza questione riguarda la negazione nei fatti delle disposizioni del Codice rosso, che impone, nei casi di violenza domestica, di collegare i procedimenti civili con quelli penali per assumere decisioni equilibrate in materia di sicurezza. Come si può evitare di considerare, per disporre l’affido del figlio, che su quest’uomo pendono processi per violenza domestica e maltrattamenti nei confronti dell’ex convivente ma anche del bambino? E’ vero che non c’è stata ancora la conclusione dei relativi processi penali, ma il Codice rosso e la normativa vigente dispongono appunto di tutelare le vittime di violenza di genere, imponendo anche al giudice minorile di compiere accertamenti sulle ragioni del rifiuto del figlio alla frequentazione del genitore, e se queste ragioni si fondano sull’aver assistito alle violenze occorre rispettare la richiesta del figlio a non essere esposto a contatti forzati con l’autore delle violenze.

Esiste il diritto di un padre violento alla bigenitorialità? Può questo diritto prevalere su quelli della madre e del figlio alla sicurezza? Secondo quanto previsto dalla normativa vigente questo diritto non esiste, solo il genitore che abbia piena capacità genitoriale può esercitare il diritto alla bigenitorialità. Il figlio deve essere difeso dal genitore violento anche se le violenze sono agite nei confronti della madre, perché la violenza assistita è violenza diretta contro il minore, ne compromette in maniera indelebile lo sviluppo psichico. Occorre, inoltre, evitare la così detta vittimizzazione secondaria, che si realizza quando le istituzioni non pongono in essere interventi per proteggere la vittima di violenza. Nel caso esaminato dalla Cassazione, il padre sul quale pendono procedimenti penali per maltrattamenti viene collocato con il figlio in una struttura e la madre allontanata dal minore: questa soluzione non appare certo di sostegno alla vittima.

Dalla lettura dell’ordinanza emerge con forza un’assenza: assente è la voce del bambino. Tutte le convezioni internazionali in difesa dell’infanzia e le norme del codice civile, dopo la riforma della filiazione del 2012/2013, impongo l’ascolto del minore. Nella decisione della Suprema Corte non è possibile comprendere se il minore sia stato o meno ascoltato: egli non è “visto”, i suoi bisogni i suoi desideri non sono riportati. Aspetti che meritano riflessioni ed approfondimenti.

Nel complesso questa decisione della Cassazione rischia di cancellare i notevoli passi in avanti fatti a livello giuridico per prevenire e reprimere la violenza contro donne e bambini e per tutelare le vittime. Il dubbio è che su tutta questa vicenda pesi la mancata adeguata formazione degli operatori in tema di violenza contro le donne. E’ anche con decisioni di questo genere che si confermano i pregiudizi patriarcali e si scoraggiano le donne a denunciare e difendersi, se stesse e i propri figli.


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