I dati forniti nel rapporto annuale Svimez certificano lo stato drammatico dell’economia meridionale che, dopo qualche anno di timida ripresa, oggi è penalizzata dal calo dei consumi delle famiglie, dalle criticità della pubblica amministrazione, del tessuto produttivo, sempre più povero di opportunità per la diminuzione degli investimenti legati anche alla fine del sostegno degli incentivi del piano industria 4.0.
Ma questi dati sono resi ancora più allarmanti perchè ci mostrano un Sud a rischio desertificazione umana, dove si continua a emigrare, soprattutto la popolazione giovanile e qualificata, e a non fare figli. Un Sud dove i cittadini continuano a impoverirsi perché manca il lavoro. E i ragazzi devono trasferirsi al nord del paese oppure all’estero: il saldo al netto dei rientri è di quasi 900 mila unità.
Si tratta di un quadro che potrebbe evolversi verso una prospettiva demografica all’insegna dello spopolamento che riguarderà, in primo luogo, i piccoli centri.
Il Presidente dello Svimez, Adriano Giannola, non ha parlato a caso di un processo di “eutanasia” della situazione meridionale. Purtroppo, la crisi ha assunto un carattere strutturale che richiederebbe una presa in carico complessiva e articolata che la politica non sembra essere capace di avviare. A parte le solite formule di rito, non si vede all’orizzonte un piano serio di contenimento di questo fenomeno di esodo di capitale umano, devastante non solo per il Sud, ma per l’intero paese.
Uno degli elementi indispensabili per ridare un po’ di speranza al Mezzogiorno del Paese deve essere la ricostruzione di contesti inclusivi. Fare comunità, infatti, significa stare dentro i processi di sviluppo e incentivare il miglioramento delle condizioni di vita.
“L’indebolimento delle politiche pubbliche nel Sud incide significativamente sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini”, questo leggiamo ancora nel rapporto. Il divario nei servizi è indicato dalla minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali e socio-assistenziali, della sicurezza, dell’istruzione, dei servizi sanitari, dell’assistenza domiciliare integrata. Fare comunità è quindi un’operazione pre-economica, funzionale a creare i presupposti anche per il lavoro.
La ricostruzione del capitale sociale, infatti, non passa soltanto attraverso un processo diffuso di responsabilizzazione, ma anche potenziando e sostenendo il tessuto comunitario. Per restituire futuro alle nuove generazioni e speranze a quelle più mature serve la concretezza di un progetto di territorio e il rafforzamento del patto sociale tra i cittadini.
Oggi ciò che allontana così profondamente il Nord e il Sud del Paese non è solo una questione economica ma riguarda anche il livello di coesione sociale, di cultura della legalità diffusa e di qualità della convivenza. Sappiamo benissimo che le differenze in termini di ricchezza incidono ma, senza investimenti sulla coesione sociale, non ci saranno reali opportunità di crescita e sviluppo per il Mezzogiorno.
La questione meridionale è anche, se non soprattutto, una questione sociale fatta di povertà, bisogni differenziati a cui si danno risposte uguali, frammentazione del tessuto sociale e civile. Uno sviluppo credibile passa da qui, dagli investimenti in politiche sociali e istruzione, ossia dalla valorizzazione delle comunità, dalla centralità del capitale sociale, dalla cura dei beni comuni, dei servizi di welfare, dal buon funzionamento delle istituzioni locali. Chi governa, dunque, deve avviare politiche di sviluppo che sappiano indirizzare e creare condizioni favorevoli alla nascita di iniziative autonome di sviluppo locale.
In questa chiave, il tanto vituperato – da chi guida il Paese – terzo settore potrebbe svolgere un ruolo chiave portando la sua esperienza e la capacità di costruire buone pratiche non solo di natura solidaristica e inclusiva ma anche economica attraverso la costruzione di reti che incrementano efficaci percorsi di welfare di comunità. Esistono ancora strade, ma bisogna cominciare a percorrerle subito.


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