Finora la proposta politica del Pd, che culminerà nella prossima formulazione del Jobs act, si è opportunamente concentrata soprattutto sulla necessità di rendere il lavoro più fluido, più semplice e più attrattivo. Sono sicuramente questi gli assi solidi su cui poggiare un duraturo rilancio dell’impresa e dell’occupazione. Peraltro è indubbio che questi obiettivi, anche se realizzati tutti e in poco tempo, non basterebbero ad assicurare il pieno impiego. 
Le ragioni sono diverse, riconducibili soprattutto al grande aumento della produttività, agli squilibri territoriali e di localizzazione produttiva, alla carenza di competenze e abilità ascrivibile a molti potenziali lavoratori, non ricollocabili facilmente anche con il migliore servizio di incontro tra domanda e offerta e con la migliore formazione.
Nel dibattito entro e fuori il Pd non solo da qualche giorno, anche in vista della definizione del nuovo programma di governo, oltre che del partito – cresce dunque l`esigenza di completare la visione complessiva, non limitandosi alla pur decisiva necessità di migliorare la competitività delle imprese, il mercato e le regole del lavoro. Non può trattarsi, evidentemente, di una ricetta che ricominci a dar fondo in modo irresponsabile alle esauste casse dello stato, né di soluzioni che finiscono per disincentivare la responsabilità personale e la disponibilità ad accettare i lavori offerti.
Le ulteriori sfide sono, alla fine, riconducibili a due. Da un lato, occorre recuperare le fasce deboli del mercato del lavoro (soprattutto giovani e donne al primo impiego e ultracinquantenni a bassa scolarità, disoccupati di lungo periodo, persone disabili o altrimenti svantaggiate) anche attraverso soluzioni non di mercato, preferibilmente entro modelli imprenditoriali non di profitto a forte impronta comunitaria, con un grande programma di lavori utili e minimi.
Dall’altro, si tratta di diffondere, attraverso una chiara iniziativa legislativa e sistemi incentivanti, ovvero penalizzanti, modelli di organizzazione più partecipati e più capaci di redistribuire il lavoro che c’è e che ci sarà, anche a favore di quanti ne hanno titolo e competenze, ma non vi accedono. Due sfide che, in fondo, hanno in comune la volontà di interpretare il lavoro non solo per la sua dimensione quantitativa, ma anche per quella partecipata e comunitaria. Che si fondano sul possibile ulteriore protagonismo di imprese sociali, capaci in pochissimi anni di creare in Italia 400 mila nuovi posti di lavoro, ma anche sul convincimento che sia maturo il tempo per diffondere, in ogni comparto e in ogni forma societaria, la responsabilità sociale d’impresa e quella di ogni singolo lavoratore rispetto a colleghi precari o potenziali.
 Lavori utili
I lavori utili vanno considerati come occasioni vere di lavoro, preferibilmente attraverso imprese sociali, specialmente nel campo della produzione di beni pubblici di interesse collettivo e dei beni comuni.
Il loro campo di attività è vastissimo, descritto a suo tempo nel rapporto della Commissione europea dal titolo Iniziative locali di sviluppo e occupazione e solo in parte esplorato i questi anni in Italia: mense e lavanderie sociali, strutture sportive di vicinato, gestione di aree verdi o terreni agricoli incolti, servizi educativi per adolescenti, manutenzione dei beni artistici, del paesaggio, degli alvei dei fiumi, dei sentieri di montagna, dei boschi, ecc.
Siamo di fronte in molti casi ad attività non particolarmente complesse, a forte intensità di lavoro che sono in grado sovente di cogliere domanda privata inevasa, pagante in parte. In altri casi si tratta di attività con una evidente natura pubblica, per le quali tuttavia la pubblica amministrazione non dispone di risorse da impegnare. Propongo di definire un fondo nazionale, integrato da risorse comunitarie, specie per investimenti, con cui integrare, a seconda del tipo di bene o servizio prodotto, le entrate da domanda privata o pubblica pagante in proprio o da donazioni, laddove l’attività sia indiscutibilmente certificata come utile ed efficace. L’emersione di una domanda pagante determinerebbe anche maggiori entrate fiscali da reddito di lavoro e per consumi.
 Lavori minimi
È tempo di assicurare, potenzialmente a tutti coloro i quali sono disponibili a lavorare, un reddito minimo. Quindi: nessun reddito minimo senza lavoro e senza lavoro fatto seriamente. L’importo concesso e il modello organizzativo non dovranno disincentivare la ricerca di opportunità di lavoro “di mercato” e non potranno permettere di rifiutare proposte di lavoro considerate congrue dai centri per l’impiego o agenzie accreditate.
I lavori minimi si fanno nel campo dei lavori utili, oppure a complemento non oneroso di servizi a domanda pagante da parte pubblica o privata. Anche in questo caso è ragionevole preferire imprese sociali.
I lavoratori minimi dovrebbero trasformarsi progressivamente in lavoratori utili, cioè inserirsi in attività capaci di ottenere almeno in parte risorse da una domanda pagante; oppure inserirsi dove il lavoro è retribuito ai valori contrattuali collettivi o aziendali. Ogni passaggio, dalla fase del lavoro minimo a quello utile o a quello contrattuale, potrebbe venire incentivato economicamente.
 Le diverse proposte di reddito o sostegno all’inclusione, avanzate recentemente, stanno in questo disegno, con l’avvertenza di modulare il lavoro rispetto alla condizione di bisogno.
Le risorse per finanziare i lavori utili e quelli minimi dovrebbero essere ottenute dal superamento della mobilità in deroga, dalla razionalizzazione delle diverse forme pensionistiche tra cui quelle a rilievo assistenziale e, in parte maggiore, dalla lotta all’evasione, alla corruzione, agli sprechi nella spesa.
Lavoro redistribuito
In Italia l’orario medio di lavoro è almeno un quinto in più di Francia e Germania; riducendo l’orario potremmo avere almeno tre milioni di nuovi lavoratori. Oggi siamo l’unica nazione d’Europa dove l’ora di straordinario costa meno dell’ora ordinaria; così si sottraggono opportunità di lavoro a chi non ce l’ha.
 Mentre in altre nazioni la crisi si affronta con i contratti di solidarietà, in Italia si preferisce mandare qualcuno in cassa e altri al lavoro. Con un risultato stigmatizzante per gli esclusi e molto più oneroso per la collettività. Poi, si preferisce pagare per la cassa straordinaria e in deroga e per la mobilità, mentre i contratti di solidarietà sono poco finanziati e complicati. Ad esempio, dovrebbero essere più incentivati quelli “espansivi”: il personale già assunto con contratto di lavoro subordinato riduce l’orario di lavoro e così si crea lo spazio per l’assunzione stabile di altri colleghi precari.
La redistribuzione del lavoro dovrebbe ancora più facilmente avvenire nel pubblico impiego, al riparo dalla competizione internazionale.
 Lavoro partecipato
Le proposte in campo sono note: partecipazione ai processi produttivi, all’azionariato ed eventualmente alla governance. Sono possibili modesti incentivi, a valore esemplificativo e simbolico.
Una delle prime e fondanti condizioni per la partecipazione è la questione della rappresentanza sindacale e dell’esigibilità dei contratti. Il principio decisivo è riconducibile alla necessità di far valere erga omnes i contratti siglati dalla maggioranza delle rappresentanze sindacali, pur permettendo anche ai non firmatari di avere una rappresentanza in azienda. La mancata osservanza degli accordi siglati a maggioranza deve prevedere chiari sistemi sanzionatori, non prima di aver esperito pratiche tese a raffreddare il conflitto. Inoltre è fondamentale definire le modalità di elezione delle rappresentanze sindacali unitarie.
 Infine, sottolineo l’esigenza di una riforma della legislazione sull’impresa sociale, indispensabile sia nella logica di assicurare un modello d’impresa multistakeholder, sia nella prospettiva di garantire una quadro giuridico favorevole allo sviluppo dei lavori utili e minimi, oltre che in risposta a una domanda pienamente pagante da parte delle pubbliche amministrazioni e dei privati.
Occorre intervenire soprattutto ampliando i settori di attività possibili; rendendo obbligatoria lo status di impresa sociale per tutte le organizzazioni che ne abbiano le qualità; permettendo di remunerare il capitale, seppur in misura limitata e non speculativa; riconoscendo la natura di onlus e il relativo regime fiscale a tutte le imprese sociali, con qualsiasi forma giuridica adottata.

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