Caro direttore,
soddisfazione e amarezza dopo la discussione, svoltasi l’altro giorno al Par­lamento europeo sullo stato dell’applicazione della Ratifica della Convezione di Istanbul con­tro le violenze sulle donne nelle varie nazioni europee. Questa Convenzione è molto impor­tante perché per la prima volta vincola giuridi­camente gli Stati a integrare prevenzione, pro­tezione, azione penale e politiche: non si limi­ta cioè a un ammonimento, a una generica mi­naccia di sanzioni. Il principio che la ispira è che la violenza verso le donne e i minori rientra nel­la trasgressione dei diritti umani in quanto vio­la il principio di uguaglianza. Il nostro Parlamento è stato tra i primi in Eu­ropa a ratificare il testo. Ricordo l’emozione di avere svolto la relazione in Senato, per conto della Commissione Esteri nel giugno del 2013, che espresse un voto favorevole all’unanimità. A questa ratifica hanno fatto seguito interven­ti e iniziative efficaci come i trenta milioni stan­ziati, con l’incremento da trecentoquaranta del 2013 ai cinquecento di oggi per i centri anti­violenza. Uno sforzo congiunto attraverso una cabina di regia per coordinare prevenzione e sostegno, dalla scuola alla polizia, ai pronti soc­corso, al controllo sulla pubblicità. L’Italia è al primo e posto in Europa e “andare in Europa” con questo traguardo è una soddisfazione. Ma sono tornata da Bruxelles anche con profondo sconforto per le resistenze enormi dei Paesi dell’Est che continuano a negare la ratifica della Convenzione. E mi ha ferito so­prattutto la motivazione: le leggi contro la vio­lenza minerebbero la stabilità della famiglia, intaccherebbero le radici dei principi cattoli­ci, minaccerebbero il cuore delle tradizione. Questo hanno ripetuto parlamentari polac­chi, attaccati da spagnole e portoghesi. Nelle sedi internazionali questi scontri sono all’or­dine del giorno: il conservatorismo misogeno e xenofobo di quelle culture si alimenta specularmente all’aggressività laicista che vuole respingerlo.
E dunque mi ha colpito il disorientamento che ha colto queste parlamentari, specialmente le polacche, di fronte al mio intervento che inve­ce di inorridire e mandarle a quel paese smon­tava la legittimità della loro visione proprio a partire dai loro e dai nostri valori, da quei princi­pi cattolici che se non hanno al centro il rispetto e la dignità della persona, non sono e non pos­sono essere tali. Non hanno niente di cristiano, sono semplicemente “pagani”. Una sorta di maurrassismo contemporaneo in salsa slava. Così come la difesa della famiglia – dicevo lo­ro – esiste solo se si rafforzano relazioni affet­tive basate sulla libertà e la dignità della don­na. Ricordando come siano proprio questi i principi del cristianesimo. E come li abbia pro­clamati con forza papa Wojtyla: parità e dignità della donna e “genio del femminile”. Sono rimaste perplesse, di fronte a considera­zioni per noi ovvie, che hanno toccato queste donne, che poi sono venute e cercarmi, a par­larmi senza arroccarsi. Non sono ingenua. Però questo può succedere quando non contrap­poniamo loro con astio i pur sacrosanti e irri­nunciabili diritti umani, ma li promuoviamo in modo che non li sentano algidi ed estranei. Le polacche sono donne fiere e appassiona­te, oggi vittime della deriva di una visione na­zionalista, xenofoba e misogena ma molte so­no coraggiose e autentiche. Infatti ancora peggio succede negli altri Paesi dell’Est. Il po­pulismo europeo che avanza e minaccia l’Eu­ropa sta usando questi temi, queste paure, queste donne.


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