La realpolitik incontra un limite: la tutela di quei principi e quei valori che sono custoditi nella prima parte della nostra Costituzione. Gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato strategico dal punto di vista militare e della sicurezza e hanno con l’Italia profondi legami politici, economici e culturali. Questo non ci ha mai impedito di affermare, in diversi incontri internazionali, che disapproviamo l’utilizzo della pena di morte in alcuni di quegli Stati. Penso che questo debba valere anche nel nostro rapporto con la Cina. Il governo precedente, sotto la guida di un sottosegretario leghista, ha accelerato sulla firma della “Belt and Road Initiative” (“Via della Seta”), senza mettere in campo i dovuti accorgimenti in merito alla tutela dei dati sensibili e di quelle infrastrutture, materiali e immateriali, ritenute strategiche. Successivamente abbiamo rimediato, dimostrando di poter negoziare con un partner economico e commerciale decisamente importante per le nostre imprese. Questa stessa capacità deve essere messa in campo per ricordare il rispetto dei diritti umani fondamentali ed esprimere la forte preoccupazione del nostro Paese di fronte agli eventi che si sono succeduti negli ultimi mesi ad Hong Kong. Chi ha responsabilità di governo in Italia non può limitarsi ad invocare il principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Paese.
Nessuno di noi vuole ingerirsi nelle scelte di un governo straniero, men che meno in quelle di un governo con cui abbiamo solide relazioni economiche e culturali. Ma è evidente che le immagini che arrivano da Hong Kong travalicano i confini fisici degli Stati e interrogano le coscienze delle diverse opinioni pubbliche nazionali, in quanto il rispetto della dignità della persona e delle sue libertà nelle diverse forme di espressione è sentito come patrimonio condiviso.
Il caso di Hong Kong, poi, assume un significato particolare per la sua storia. In qualità di ex colonia britannica nel cuore del continente asiatico, è sempre stato un luogo cosmopolita, incontro di diverse culture e tradizioni, che lo ha reso naturalmente aperto all’innovazione e all’integrazione. Per anni è stato ponte culturale fra mondo occidentale e Cina. Cosi come ha rappresentato e rappresenta tuttora la porta di accesso della parte degli in vestimenti stranieri nella Repubblica popolare cinese.
Il principio di “una Cina, due sistemi” prevede una forte autonomia politica, economica e soprattutto giudiziaria per Hong Kong (fino al 2047). Metterlo in discussione significa cancellare una storia centenaria, vuol dire incidere sull’identità più profonda della popolazione. Motivo per il quale le manifestazioni hanno conosciuto una partecipazione di massa senza precedenti, nonostante le reazioni, spesso brutali, della polizia locale; cosi come le elezioni distrettuali di domenica scorsa hanno visto trionfare in maniera plebiscitaria il fronte democratico, che ha conquistato circa il 90% dei seggi.
È dunque utile che la comunità e i media internazionali continuino a tenere i fari ben accesi per chiedere il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e per evitare che si ripetano azioni di repressione. Per parte nostra, come parlamentari del Pd, lavoriamo perché il governo italiano si muova nel solco della Risoluzione adottata dal Parlamento Europeo il 18 luglio scorso, per chiedere il rispetto dell’autonornia speciale di Hong Kong e, insieme agli altri partner europei, per sostenere in tutte le sedi internazionali l’avvio di un’indagine conoscitiva per verificare la violazione dei diritti umani in occasione delle manifestazioni.
Su questi temi siamo convinti di poter trovare anche altri compagni di strada nelle aule del Parlamento, poiché è una battaglia che merita davvero di essere sostenuta al di là dei colori politici.


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