Signora Presidente, voglio da subito ringraziare i presentatori e i promotori di questo disegno di legge, perché penso che sia un dovere morale e politico per l’Italia affrontare questo tema. Vorrei invitarvi, colleghe e colleghi, signora Presidente, a guardare un po’ indietro, per capire perché lo ritengo un dovere morale e politico. Voglio invitarvi a guardare alla nostra storia, ma non voglio utilizzare parole mie: mi permetterò di leggere alcuni scritti.

Voglio leggervi alcuni estratti di un articolo pubblicato su «La Repubblica» il 28 agosto 2009 dalla giornalista Giulia Vola, che ha incontrato alcuni discendenti dei nostri emigrati, a Buenos Aires:

 

“Buttarono nell’Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre”. Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla “Merica”, a bordo del Matteo Bruzzo.

 

Si chiamava “Merica” allora, nel linguaggio dei nostri migranti.

 

(…) Maria parla un po’ in piemontese e un po’ in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. “La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia”.

 

Lo dice la figlia di uno dei nostri primi emigranti. L’articolo prosegue:

 

Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del Frisca. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi”.

 

Le storie raccolte da questa giornalista sono confermate da tanti altri scritti:

 

Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul «Corriere della Sera» nel 1902: “L’Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco.

 

Scrive ancora questa giornalista:

 

Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: “Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull’Oceano. Si salvò solo lei”. Come dicevano con terrore le madri: “Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra “.

 

Altre testimonianze:

 

“Ci imbarcammo sulla Filippa senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania”.

“Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello – racconta Antonio Caballero – , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l’Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l’italiano perché nessuno me l’ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti”.

 

Ora citerò da un saggio dello storico Sebastiano Cicciò, intitolato «E il viaggio non finiva mai. Note sull’emigrazione italiana transoceanica»:

I poeti popolari del Meridione italiano chiamano il momento della partenza dell’emigrante «spartenza», ovvero separazione, per indicare un distacco violento e doloroso. Durante il viaggio, però, gli emigranti spesso non avevano tanto tempo per la meraviglia, la noia o la nostalgia: c’erano il mal di mare, l’indifferenza e gli abusi dell’equipaggio, la paura dei naufragi e delle malattie contagiose e la possibilità di essere sbarcati in un Paese diverso da quello previsto. Gli italiani erano privi di un’efficace protezione da parte della legge e le speculazioni delle compagnie di navigazione potevano trasformare il viaggio transoceanico in un’esperienza altamente rischiosa. II trasporto di emigranti fu un grosso affare per la marina mercantile italiana.

 

Un’ulteriore testimonianza, particolarmente rilevante, è quella dello scrittore Edmondo De Amicis:

 

Nel 1894 viaggiò da Genova in Argentina, a bordo del piroscafo Nord America, insieme a 1.600 emigranti italiani. Pubblicato nel 1889, il romanzo «Sull’oceano», che racconta i ventidue giorni di quel viaggio, ottenne uno straordinario successo e divenne un modello obbligato per coloro che si accingevano a scrivere della traversata transoceanica. Sia nelle situazioni che nella scelta lessicale, lo scrittore ligure utilizza l’immagine classica dell’inferno dantesco per descrivere la condizione di estrema sofferenza dei passeggeri di terza classe. Questo modello letterario è stato spesso adottato dagli stessi emigranti, in riferimento alla propria esperienza: «Se Dante avesse conosciuto ciò che erano le terze classi dei transatlantici nel 1885, per certo ne avrebbe descritta una e l’avrebbe allogata nell’inferno e vi avrebbe inchiodato i peccatori de’ più neri peccati».

Il viaggio verso il nuovo mondo durava dalle due alle quattro settimane, in base alle condizioni del mare e al carico; durante questo periodo, l’affollamento e la sporcizia dei dormitori diventavano tali da spingere l’igienista Vittorio Cantù a scrivere che «l’impressione di disgustosa ripugnanza che si riceve scendendo in una stiva dove hanno dormito gli emigranti è tale che, provata una volta sola, non si dimentica più».

 

Ho preso un’altra piccola testimonianza da un libro, ben conosciuto, di Gian Antonio Stella:

 

«Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù in mare. Io urlavo, urlavo non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola (…). Non volevo lasciarla sola, povera bambina, invece mi tennero indietro mentre la buttavano giù. Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo».

 

Tutte quelle che ho riportato in questo mio intervento, non sono parole mie: Presidente, pensavo che non utilizzando parole mie, avrei annoiato di meno l’Assemblea, ma vedo che non è così.

Per quanto tremende potessero essere le condizioni di viaggio, molto spesso, però, la principale preoccupazione dei passeggeri era che la nave sarebbe affondata. Gli emigranti italiani furono coinvolti in decine di naufragi, come quelli del piroscafo Utopia, che nel 1891 provocò 576 morti, dell’Ortigia, che causò 249 morti, del Sud America, che nel 1880 causò 80 morti, del Bourgogne, che nel 1898 provocò 549 morti. Vi furono poi il naufragio della nave Sirio nel 1906, in cui ufficialmente vi furono 292 morti, ma le tombe stranamente sono più di 500, e quello della nave Principessa Mafalda nel 1927, in cui perirono 385 persone.

Come ho detto in apertura, sono queste le cose che mi fanno dire che per noi, per l’Italia, per il popolo italiano e per il Parlamento italiano è un dovere morale quello che stiamo facendo oggi.

Tuttavia non desidero parlare solo del passato e adesso dovrete sopportare le mie parole, signora Presidente. La situazione odierna è diversa, il mondo è cambiato; la situazione delle persone, dei bambini, delle donne e degli uomini che hanno fatto questa triste storia dell’Italia è diversa da quella dei bambini, delle donne e degli uomini di oggi? “Gli immigrati sono troppi, saremo invasi”. Queste erano parole che in Svizzera dicevano di noi negli anni Sessanta e Settanta, perché eravamo quasi un milione in quel Paese (Applausi dal Gruppo PD) e in quegli anni la nostra “invasione” della Svizzera fece nascere i primi movimenti politici xenofobi. Chi ha i capelli bianchi come i miei ricorderà un nome difficilmente pronunciabile in italiano: Schwarzenbach. Egli era un deputato, un uomo politico che fece votare il popolo svizzero sulle prime iniziative non antistraniere ma antitaliane e, anche se avevo solo 17 anni, la mia attività sociale e politica è iniziata proprio combattendo quelle iniziative.

Eppure oggi, in quel Paese che era a rischio di invasione da parte degli italiani, la nostra seconda generazione fa parte integrante della classe dirigente: oggi i nostri figli sono deputati cantonali o federali, sono giudici e dirigenti nel campo dell’economia, ma negli anni Settanta si diceva che noi volevamo distruggere la Svizzera. Io credo che non ci sia molta differenza tra mio padre, che lasciò l’Abruzzo facendo i debiti per pagare il biglietto del treno (perché non aveva neanche quelle risorse) e andò in Svizzera per far stare meglio mia madre, me, mia sorella e il resto della famiglia, e i migranti che arrivano oggi. Come ricordava la figlia di un nostro emigrato a Buenos Aires, forse la differenza tra suo padre, arrivato in quel Paese in quelle condizioni, e i migranti che oggi arrivano in Italia è che in Argentina potevano fare fortuna, mentre da noi hanno solo grandi problemi.

Oggi nella politica europea è di gran moda l’assimilazione tra due parole, che alcuni vorrebbero associare in una sola, quella cioè tra emigrazione e delinquenza. Inoltre si dice che le prigioni europee sono piene di stranieri. Negli anni Settanta, con una lettura manipolatoria dei dati statistici, si sosteneva che le prigioni svizzere erano piene di italiani. (Applausi della senatrice Lo Moro). Ebbene, è la stessa cosa che diciamo noi oggi dell’emigrazione, ma adesso c’è un’aggravante, in quanto si associano emigrazione, delinquenza e terrorismo. Vorrei quindi chiedervi, colleghi, di riflettere partendo dai fatti drammatici di Parigi, perché i terroristi che hanno colpito quella città non erano tutti emigranti stranieri: di fatto erano francesi e belgi, erano cittadini europei nati in Europa, erano figli di emigrati. Come è possibile una cosa del genere? Perché vogliamo rimuovere questa realtà senza riflettere? La parola integrazione ci mette davanti al fallimento generale di varie politiche nazionali. (Applausi dal Gruppo PD e del senatore Orellana).

Il problema dell’emigrazione, dei fenomeni relativi ai migranti, è che sono uno specchio in cui si riflette la società che riceve, e non è bello ciò che si riflette in quello specchio. E allora, visto che l’immagine che quello specchio ci rimanda della nostra società non è bella, la colpa non è più della società stessa ma del migrante che ci obbliga a guardare dentro quello specchio.

La parola immigrazione meriterebbe un dibattito in quest’Aula e nel mondo politico italiano, per quello che ci riguarda, e lo meriterebbe anche sul piano europeo, come ricordava prima il collega Liuzzi. Sappiate che non c’è nessun buonismo nelle mie parole, perché sarebbe troppo comodo e troppo facile: io credo che il vero nemico dell’integrazione, il vero nemico della possibilità di affrontare con serietà questi temi sia proprio il buonismo. Nella parola integrazione il buonismo non esiste. Integrazione è una parola complicata, è una parola nella quale si può mettere tutto e il contrario di tutto, ma dovremmo metterci d’accordo, un giorno, su cosa debba contenere. Dobbiamo guardare il resto del mondo e il resto dell’Europa per quello che hanno fatto, per le cose buone e le cose cattive che abbiamo fatto in Europa.

Ad esempio la Francia, per anni, ha sostenuto che l’integrazione non era una strada percorribile ma che la strada giusta era l’assimilation, che vuol dire che se io arrivo in Francia devo assimilarmi ai francesi. Gli inglesi hanno sostenuto un’altra teoria, non so neanche bene come definirla: la multietnicità, salvo accorgersi che nelle periferie inglesi scoppiano degli scontri perché quando una comunità vive richiusa su se stessa non è integrata.

La parola integrazione non si può lasciare ai sociologi e agli specialisti. La parola integrazione riguarda la società, riguarda l’insieme delle politiche, riguarda anche l’urbanismo. La politica urbanistica di una città può essere un elemento di integrazione o di isolamento e dunque di problemi. Integrazione vuol dire politiche per la scuola e politiche per il lavoro.

Perché non aprire questa riflessione e questo dibattito in Italia e in Europa? Perché in Europa non c’è un commissario alle migrazioni e alle integrazioni? (Applausi della senatrice Puppato).

Perché non abbiamo mai sollevato questo tema? Perché l’Italia non avanza proposte che rispettino la nostra storia, che è ricca di esperienze di emigrazione? Io credo che questo dovremmo fare; se lo facciamo con serietà, allora alla parola integrazione si può tentare di dare un senso.

Chiedo al Presidente di avere pazienza ancora per due minuti, se è possibile, per raccontarvi una piccola esperienza che abbiamo fatto in un piccolo Paese non europeo, la Svizzera, dove sono invecchiato. Qualche anno fa, nel 2002, le associazioni degli stranieri residenti in Svizzera si sono riunite pensando di fare una cosa semplice, parlare tra di loro (provenivamo da 56 nazionalità diverse in quel momento) e scrivere quella che abbiamo chiamato la Carta dell’integrazione, senza parlare con gli amici svizzeri. Ci chiedemmo se eravamo in grado, noi stranieri, di metterci d’accordo su alcuni valori con i quali, poi, avremmo potuto presentarci alla società Svizzera dicendo che su tali valori eravamo pronti ad integrarci. Abbiamo impiegato un anno e mezzo a scrivere quattro foglietti, Presidente, perché il problema è proprio quello: integrazione vuol dire che io, straniero, non arrivo in un deserto da conquistare ma in una società che ha i suoi valori, e per vivere so che dovrò rinunciare ad alcuni dei miei valori, ma quella società deve essere capace di accogliere anche il nuovo di cui io sono portatore.

Dunque, nessun buonismo; un rapporto chiaro e trasparente, alla pari, tra cittadini che hanno un destino comune: costruire una società migliore di quella in cui viviamo oggi.

La parola «integrazione» ci richiama alle nostre politiche, alla realpolitik.

Io, che non sono della famiglia politica della cancelliera tedesca Merkel, non posso tuttavia non esprimere grande rispetto per la sua reazione al voto di domenica in Germania. Nonostante gli esiti del voto, la signora Merkel continua a ribadire che la politica giusta sull’immigrazione è quella che propone lei. Ne pagherà i costi, ma la porterà avanti. Dunque, ci richiama anche a questo, ad una vera politica di cooperazione allo sviluppo. E la politica di cooperazione allo sviluppo non può essere determinata dagli interessi delle nostre organizzazioni o aziende, che per decenni ha sempre ragionato nell’ottica di investire un euro purché ne tornino due in cassa. Non è questa la vera politica di cooperazione allo sviluppo.

Questa discussione ci deve servire ad aprire un dibattito più ampio. Credo che oggi, con questo disegno di legge, perlomeno il nostro dovere morale lo abbiamo assolto. (Applausi dai Gruppi PD e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE e del senatore Uras).


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