Caro direttore,
finisce un mondo? Sì e no. Finisce quello già estenuato (quando addirittura non corrotto) di una cultura politica che non esprime le spinte più profonde del “popolo”, e che considera populismo le forze che le esprimono. Malamente, pericolosamente, ma cogliendo la rabbia di una cattiva e indiscriminata emigrazione (cominciata ai tempi del presidente Johnson) i fallimenti della globalizzazione (i cui effetti non furono capiti dal clintonismo). Gli anni di Obama non hanno arrestato questi processi, che sarebbe ben sbagliato ridurre alla sola dimensione economica. Urge la rilettura di un testo molto bello, dello storico di Samuel Huntington, La nuova America del 2004, preveggente delle nuove geografie politiche, etniche e morali dell’America.
C’è un vero e proprio problema di identità, che non riguarda le tradizionali divisioni, bianchi-neri, uomo-donna, conservatori-progressisti, ma che attraversa queste appartenenze dividendole al loro interno e ridisegnandone delle nuove. Hillary Clinton ha perso tutto, ha perso negli Stati di grande tradizione democratica, ha perso tra i neri e tra le donne. Non è in gioco solo la paura del bianco, conservatore che vuole le armi, del revanscismo maschilista che rivuole la sua preda femmina sottomessa ecc. ecc. Tutto questo c’è, eccome, in Donald Trump, il presidente eletto, ma purtroppo c’è anche un vuoto, nella cultura democratica, che ci dovrà fare riflettere. Mi hanno colpito, anche in questi giorni ài full immersion americana, gli effetti corrosivi che tante volte denunciamo del “politicamente corretto”. Tanti piccoli esempi: le scuole che sono zeppe di istruzioni invasive su come ci si deve com¬portare, tutti suggerimenti correttissimi, ma estrinseci, formali. Così come sul discorso femminile, dove i diritti sono staccati dalle condizioni materiali legate al lavoro e alla maternità. Si respira un grande senso di scissione, di separatezza. Tutto il disagio di una candidata democratica che via via scoprivamo sempre più palesemente debole era dovuto anche da questa discrasia, molto più che una contraddizione tra i valori dichiarati e gli interessi materiali davvero rappresentati e incarnati: finanza, corruzione, privilegi. E il sentimento di disagio non era alimentato solo dalla demagogia. Hillary non mi è mai stata simpatica, per usare un eufemismo. Anche quando non era candidata presidente. Per le note ragioni di cui ora tutti parleranno, ma anche perché nonostante il suo essere sgobbona e prima della classe mi è sempre sembrata sdoppiata e poco risolta come donna e come donna di potere. Come se fosse lei stessa la più pericolosa nemica di se stessa. E proprio – o, forse, anche – per questo, provavo per lei una sorta di pena, come se avesse bisogno di essere protetta, prima di tutto da se stessa. Nonostante mi fosse antipatica però, come a quasi tutti (e questo i sondaggi non lo hanno mai nascosto, forse ne hanno sottovalutato gli effetti), nelle ultime settimane, l’ho sostenuta dentro di me e fuori. Anche nelle zone super democratiche come Washington e New York si percepiva il fastidio di dover votare “turandosi il naso” e per il “male minore”. Come si è visto non è bastato neanche turarsi il naso: tantissimi democratici non ce l’hanno fatta lo stesso e non sono andati a votare. Sono stata al suo ultimo comizio a Philadelphia e l’entusiasmo della sua base mi ha colpito. Donne anziane, tanti gay, molti neri. Tante speranze. Che dovranno trovare altre risposte.


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