Mediobanca uscirà dai patti di sindacato azionario ai quali ancora partecipa.
La decisione ha fatto rumore. Ed è stata salutata come una grande svolta
Una grande svolta, ancorché temperata, come ha notato Salvatore Brigantini sul Corriere della Sera, dalla persistenza di un tale patto al vertice della Mediobanca medesima. Ma di che svolta stiamo parlando? Siamo sicuri di voler circoscrivere l`osservazione ai casi di piazzetta Cuccia quando l`Italia del 2013 è ben più vasta e variegata di quella nella quale, con quei patti, il grande banchiere Enrico Cuccia e il suo assai notevole erede Vincenzo Maranghi esercitavano la loro egemonia? La risposta valida è la seconda. Il campo di osservazione va esteso al sistema bancario italiano qual è stato disegnato nel 1993 dal Testo unico bancario (Tub), dalla spinta mercatista della Ue e dalle regole di Basilea. Se stiamo dentro il recinto delle scelte degli epigoni dei grandi, capiamo poco e impariamo ancor meno.
Per alcuni decenni i sindacati azionari hanno rappresentato una forma di mutuo soccorso tra le famiglie storiche e meno storiche del capitalismo italiano ai fini di stabilizzare gli assetti di controllo di un certo numero di grandi aziende e il loro personale potere. Un po` tutti ne abbiamo menato scandalo, perché la stabilità ha spesso salvaguardato incapaci, corrotti e disonesti. Alcuni hanno anche sottolineato come, anche in quel modo, un capitalismo privato senza capitali difendeva il settore privato dell`economia dall`invasione della mano pubblica. Certo è che nel 1998 il Testo unico della finanza, favorendo la contendibilità delle società per azioni quotate attraverso le offerte pubbliche d`acquisto, ha segnato la vittoria delle forze del mercato. La storia di questi 15 anni ha smontato molte delle illusioni dei fautori della legge Draghi. Le Opa sono servite soprattutto a indebitare le aziende industriali e a indebolirle. Lo so che è brutto da dire, ma la storia di Telecom Italica, della Fiat e della Montedison parla da sola. E Mediobanca di quelle vicende è stata di volta in volta soggetto attivo e passivo senza che, nell`un caso e nell`altro, al Paese ne venisse granché. La contendibilità non sempre ha fatto bene alle aziende contese.
I patti di sindacato sono una furbizia italica. Quante volte ne abbiamo scritto? Millanta che tutta notte canta. Ma il mutuo soc- corso tra i soliti noti al fine di respingere gli outsider è un vizio assai diffuso anche a New York e a Londra, dove sono i top manager delle public company a sostenersi a vicenda sedendo ciascuno nel board dell`altro. Le interlocking directorates hanno un secolo di vita. Le denunciava ne11913 il giudice americano Louis Brandeis. Dunque, se non è zuppa, è pan bagnato. La battaglia per il merito e la trasparenza non è mai vinta una volta per tutte in nessun paese del mondo.
Ora Mediobanca esce dai patti. Bene. E tuttavia lo fa non perché sia presa da un`improvvisa ansia mercatista, ma perché deve vendere le partecipazioni che in quei patti sono bloccate. E deve venderle non perché si sia trovata improvvisamente ad avere in uggia il potere connesso a quelle partecipazioni, ma perché quelle partecipazioni assorbono troppo capitale di vigilanza. In parole povere, perché sono «troppo care» in relazione al ritorno attendibile in termini sia di dividendi sia di lavoro captive. Il banchiere Alberto Nagel è arrivato a questa conclusione sotto la spinta degli accordi di Basilea e dei giri di vite della Banca d`Italia. Forse, la svolta avrebbe potuto maturare anche prima, se il dopo Maranghi non fosse rimasto per otto anni sotto il segno di Cesare Geronzi, che voleva cambiare la guida ma non la macchina ritenendola ancora utile all`Italia dell`euro. Ma questa è materia per storici con archivi a disposizione.
Chi guardi ai fatti sulla base dei dati ufficiali dovrebbe fare invece due osservazioni. La prima. Che uso farà Mediobanca dei denari provenienti dalla vendita delle partecipazioni? Farà speculazione sui titoli o aumenterà gli impieghi a medio e lungo termine con la clientela? In ogni caso, assai più del destino delle partecipazioni, per Mediobanca conterà la capacità di raccogliere denari, di fare provvista, a prezzi ragionevoli e di aumentare la massa de crediti conservando la tradizionale allergia alle sofferenze. Per tanti anni, Mediobanca ha avuto alle spalle la Comit, il Credito Italiano e la Banca di Roma e davanti a sé una rete di soci-clienti che garantiva lavoro. Ora ha sopra di sé Unicredit, banca fortemente internazionalizzata. Tra Nagel e Federico Ghizzoni, l`amministratore delegato di Unicredit, sono state frequenti le convergenze d`affari. Per proseguire così, Mediobanca dovrà aggiungere qualche altro Paese al bouquet della sua presenza internazionale. La filiale spagnola ha dato risultati incoraggianti. Nagel fa bene a provarci. Ma se non avesse fortuna, Unicredit potrebbe rivelarsi una calamita irresistibile.
Seconda osservazione. Nel momento in cui perfino Mediobanca rinuncia a detenere partecipazioni, dovremmo chiederci se non sia arrivato il momento di rivedere il Tub. A vent`anni dal 1993, un tagliando lo si dovrebbe fare a prescindere. Ma qui ci vuole pro- prio una revisione. Quando si accantona la grande legge bancaria del 1936 perché si vuole fare la banca universale votata al profitto, che fa tutti i mestieri, compreso quello crucialissimo di detenere partecipazioni nelle imprese non finanziarie, e poi si scopre che gli stati patrimoniali sono fragili, gli impieghi languono e nessuna banca vuole intestarsi partecipazioni, e pure Mediobanca abdica, quando tutto questo accade non possiamo non dire che nel Tub c`è qualcosa di superato e che i banchieri, chiamati a interpretarne il dettato, non sono stati all`altezza. Nei giorni in cui Mediobanca inaugura una sua second lif e, dovremmo cominciare a chiederci se all`Italia di domani – all`Italia che nel dramma della recessione progetta gli strumenti per la ripresa come già fece nel 1943, durante la guerra – non serva una nuova Mediobanca o un nuovo Imi, capaci di guardare oltre il Tub e oltre Basilea.

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