Prima di tutto il governo deve chiarire qual è il ruolo delle principali aziende di Stato nella strategia di rilancio della politica industriale nazionale

Saccomanni ha rilanciato l`idea di utilizzare le partecipazioni azionarie dello Stato per ridurre il debito pubblico o vendendole direttamente oppure usandole come collaterali di nuove emissioni obbligazionarie, magari varate da soggetti al di fuori del perimetro pubblico, con cui sostituire una quota di debito pubblico equivalente.
Il ministro dell’Economia si è tenuto sulle generali. E ha fatto bene. Spacciare illusioni  dalla cattedra di via XX Settembre non sarebbe responsabile. Lo fa già Renato Brunetta, quando prospetta mirabolanti dismissioni di immobili, concessioni, aziende e partecipazioni pubbliche per 400 miliardi, sempre la stessa cifra che gira da tre anni, alla faccia della discesa dei prezzi immobiliari, della recessione che indebolisce il valore delle concessioni e fiacca la Borsa. Le parole di Saccomanni riecheggiano ragionamenti che hanno corso nel governo a proposito del debito pubblico. Questo debito rappresenta un problema non solo per la sua incidenza sul prodotto intero lordo e per il peso degli interessi passivi sul deficit annuale, ma anche per la sua dimensione in sé e per sé. La dimensione rappresenta un profilo di rischio a lungo trascurato dagli economisti mazn streaming, ma infine reso evidente a tutti dalla crisi di liquidità del 2011. E tuttavia peggio del debito pubblico sono le bugie e le illusioni che vengono sparse in materia per evitare di misurarsi sulle questioni vere.
Premesso che se non si ferma l’éspansione della spesa pubblica corrente tutto è inutile, ci sono tre modi per aggredire il debito pubblico: un fortissimo prelievo patrimoniale una tancwn oppure una vendita massiccia di beni pubblici oppure ancora la svalutazione della moneta nella quale il debito è oniale una tantum non ha mai riscosso i necessari consensi e oggi sarebbe più dolorosa e meno efficace di due o tre anni fa dato che la recessione ha eroso la consistenza monetaria della ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie mentre il debito pubblico è salito dai 1850 miliardi di fine 2010 ai 2080 miliardi attuali.
Le stesse ragioni pratiche, che suggeriscono di non insistere con l’idea della patrimoniale, fanno emergere l’illusorietà del progetto di Brunetta. Tutti sarebbero felici se lo Stato e gli enti locali riuscissero a vendere i tanti edifici che posseggono e non usano o usano male, con sprechi di spazio e di spese. Ma è del tutto improbabile che possa accadere su scala rilevante. Il cavallo non beve. Tanti Comuni italiani stanno da anni provando a vendere i loro immobili senza risultati tangibili. Forse basterebbe chiedere alla Cassa depositi e prestiti, che ha un fondo specializzato, quali siano state le occasioni concretamente prospettate dagli enti locali.

I TENTATIVI E GLI ESITI
Peggio va con il demanio militare. Anche qui tentativi sono stati fatti. Ma forse vale la pena di informarsi sugli esiti prima di vendere fumo sulle caserme pronte a essere trasformate in alberghi, centri congressi, officine high tech, palazzi ecocompatibili nelle città gravate da spettacolari invenduti e da imponenti progetti di sviluppo immobiliare ancora a metà strada sui libri di banche e assicurazioni. Qualcosa, sia ben chiaro, si può sempre tentare, ma non è serio promettere incassi per 2-300 miliardi. Qualcosa ancorasi può fare per ricavare di più dalle concessioni, ma molte hanno scadenze lontane e altre, tipo le spiagge, dipendono dai Comuni ai qual nessuno ha finora impedito di aumentare i canoni. Facciano. E vedremo.
In questo scenario illusionistico, restano realmente vendibili, oggi come ieri, le partecipazioni pubbliche dello Stato. Potremmo aggiungere anche quelle dei Comuni, ma con l’avvertenza che le ex municipalizzate quotano ormai pochissimo e che le municipalizzate non quotate hanno valori di mercato modesti, a meno che questi stessi valori non vengano tonificati con politiche tariffarie esose, a spese dei cittadini consumatori. Le partecipazioni pubbliche sono totalitarie in Fs, Poste, Anas, Sogin e altre entità minori. Molto alte nella Cassa depositi e prestiti, Fintecna, Sace e Fincantieri. Superano di poco il 30% in modo diretto e indiretto, in Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Snam. Stiamo parlando di un valore che, per le quotate, si aggira sui 35 miliardi, salvo pre  ni di controllo fossero messe all’asta in regime di esenzione di Opa. Una trentina di miliardi è il valore delle non quotate, alcune delle quali tecnicamente non privatizzabili come la Cassa depositi e prestiti che si finanzia con la garanzia pubblica.
A proposito di queste aziende, sentiti il ministero dell’Economia e quello dello Sviluppo economico, il governo dovrebbe in primo luogo chiarire se tutte o alcune di queste aziende possano servire la politica industriale che il premier Letta ha riportato all’onor del mondo dopo il disastroso oblio degli ultimi vent’anni. In secondo luogo, dovrebbe verificare se ai fini della politica industriale siano necessarie partecipazioni di questa o di diversa consistenza. In parecchi casi, riformando gli statuti, può bastare anche il 20-25%. Per decidere bene in tali materie servirebbe al governo una tecnostruttura che, assumendo l’obiettivo generale, ne suggerisca la concreta attuazione. Non un comitato di banchieri d’affari che sognano una nuova bonanza di commissioni come negli anni Novanta, ma una tecnostruttura a vocazione industriale che riprenda gli insegnamenti dell’Iri e dell’Eni dei primi decenni, quando quei due enti pubblici economici costituivano modelli studiati perfino nei Paesi scandinavi.
La Cassa depositi e prestiti può diventare il perno di questo New Deal?
Forse e purché se ne definiscano con coerenza e coraggio la missione e gli orizzonti, superando vincoli illogici, perché figli dell’ideologia liberista degli anni Novanta, come quello di far investire i suoi fondi solo in quote di minoranza quasi si avesse paura di più piene responsabilità.
Ma se infine si volesse comunque far uso di queste partecipazioni ai fini della riduzione del debito pubblico, il governo dovrebbe dare una risposta preliminare a due quesiti radicali: a) qual è stato negli ultimi 15 anni il delta tra i dividendi incassati dal Tesoro e gli interessi passivi che si sarebbero risparmiati sul debito pubblico cancellato grazie agli incassi di queste teoriche partecipazioni e quale delta si prevede ci possa essere nei prossimi anni; b) quale sarebbe la reazione delle agenzie di rating qualora il coacervo di queste partecipazioni venisse posto a garanzia di nuove emissioni obbligazionarie: certo, con simili collateral avremmo tassi ridotti rispetto a quelli correnti e potremmo sostituire debito pubblico al 4,5% con debito pubblico, poniamo, al 3,5% o addirittura potremmo cancellare alcune decine di miliardi di debito pubblico se, come dicevamo all’inizio, il soggetto emittente fosse posto fuori dal perimetro pubblico ai fini Eurostat; ma poi quali sarebbero i tassi sui 2 mila miliardi di debito pubblico residuo senza più quelle partecipazioni a garanzia? Temo chele risposte a entrambi quesiti scoraggino un nuovo giro di privatizzazioni: perderemmo più dividendi di quanti interessi sul debito potremmo risparmiare; quanto più i mercati percepissero il valore dei collateral concedendo ribassi sulle nuove e fatalmente limitate emissioni, tanto più potrebbero considerare meno garantito di prima il grosso del
debito pubblico pretendendo per quest’ultimo tassi superiori a quelli correnti.
Purtroppo, come perla«patrimoniale», anche per questo genere di manovre temo che il treno sia passato qualche tempo fa. Rincorrerlo ora darebbe l’idea di un Paese disperato, senza visione politica propria, subordinato a schemi ormai logori. E allora? All’esordio avevamo parlato anche di una terza via. Ma al momento sarebbe come bestemmiare in chiesa. L’importante è che rivediamo in tempo i nostri codici mentali, prima di perdere anche l’ultimo treno.
      


Ne Parlano