XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

PROPOSTA DI LEGGE

Di iniziativa dei deputati

BAZOLI, ORLANDO, DELRIO, VERINI, BORDO, VAZIO, MICELI, ZAN

 

Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato e di ragionevole durata del processo”

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Onorevoli colleghi! – La prescrizione del reato è un istituto ben radicato negli ordinamenti penali moderni, che trova la sua ratio nell’affievolirsi, fino a venir meno, di esigenze di prevenzione generale in ragione del decorso del tempo.

L’idea di un tempo dell’oblio, e dunque del venir meno di esigenze di risposta punitiva, è coerente con una idea di giustizia consapevole dei suoi limiti, senza pretese di assolutezza, e ha un solido fondamento nell’orizzonte costituzionale della pena.

Al tempo stesso nel nostro ordinamento, caratterizzato da tempi di durata dei processi spesso troppo lunghi, la prescrizione è altresì uno strumento che concorre a realizzare la garanzia della

ragionevole durata del processo, principio sancito dall’art. 111 della Costituzione, come ha autorevolmente statuito la Corte Costituzionale (sentenza n. 143/2014).

Non vi è dubbio, tuttavia, che in quanto rinuncia alla normale risposta prevista dalla legge per un reato, la prescrizione sia un istituto ontologicamente ambiguo: da un lato presenta un volto di giustizia (inopportunità di perseguire un comportamento troppo risalente nel tempo), ma è in ogni caso una presa d’atto di una obiettiva defaillance del sistema.

Le declaratorie di prescrizione del reato, molto numerose nell’esperienza italiana, si presentano come una sconfitta del law enforcement: impunità dei reati commessi, immeritatamente guadagnata, o astutamente conquistata, per decorso del tempo. La prescrizione di un processo rappresenta dunque un fallimento per l’amministrazione della giustizia, con costi sociali ed economici non irrilevanti.

È ugualmente una sconfitta, però, che un imputato resti sotto processo per un tempo indefinito: sotto processo “per sempre”.

La prescrizione esige dunque di essere riformata secondo un disegno organico, che trovi un ragionevole equilibrio rispetto alla sua natura ambivalente, attraverso un bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno, assicurando al contempo una “ragionevole durata del processo”, nel rispetto dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU.

Ovviamente tutto ciò deve accompagnarsi a riforme che snelliscano i processi, ne accelerino la conclusione ed escludano, in ogni caso, l’eventualità di una durata del tutto irragionevole, per evitare che questo gravi sull’imputato arbitrariamente come fosse una vera e propria pena supplementare e anticipata (irrogata anche a chi poi risulti innocente), nonché per garantire la domanda di giustizia dello Stato.

Una rigorosa analisi dei dati oggi a disposizione ci indica che la maggior parte delle prescrizioni avviene nella fase delle indagini preliminari, prima cioè che l’azione penale venga effettivamente esercitata.

Si tratta, in questo caso, di prescrizioni che potremmo definire fisiologiche, proprio perché maturano prima che si arrivi ad un giudizio, e dunque garantiscono in modo non equivoco né ambivalente il dispiegarsi degli effetti del tempo sul diritto all’oblio che l’istituto garantisce.

Non così è a dirsi per le prescrizioni che maturano dopo l’esercizio dell’azione penale, quando cioè lo Stato ha esercitato tempestivamente la sua pretesa punitiva, che viene in questo caso vanificata – con dispendio di tempo e denaro, e discredito per la giurisdizione e il senso comune di giustizia – dal decorso del tempo.

Oggi è soprattutto nei procedimenti in Corte d’Appello che si registra il numero più rilevante di prescrizioni successive all’esercizio dell’azione penale, circa il 25 per cento del totale, tanto più dannose per l’immagine complessiva della giustizia perché vanificano indagini, istruttoria, e spesso condanne di primo grado.

Nella consapevolezza di ciò la legge n. 103 del 2017 aveva apportato modifiche al regime della prescrizione che si facevano carico di questo obiettivo problema, in particolare prevedendo una ipotesi di sospensione di un anno e sei mesi dopo la sentenza di condanna di primo grado, ed un’altra di pari tempo dopo la sentenza di condanna di appello.

Quindi un allungamento della prescrizione limitato, calibrato solo sulle sentenze di condanna – che obiettivamente e in qualche misura affievoliscono la presunzione di innocenza – e finalizzato a evitare la moria dei processi di appello, senza con ciò eliminare un tempo massimo esigibile dallo stato per scrivere la parola fine sul processo.

Secondo le norme oggi in vigore occorre peraltro ricordare che, al di là dei reati puniti con l’ergastolo che sono imprescrittibili, in linea con le convenzioni internazionali (Convenzione di Istambul) e gli ordinamenti europei, per i reati di violenza contro i minori (violenza sessuale, stalking, prostituzione, pornografia, maltrattamenti in famiglia, etc.) si è posticipato al compimento della maggiore età il decorso della prescrizione per i reati sessuali o di violenza commessa in ambito domestico di cui sono vittime i minorenni.

Inoltre, riconoscendo la specificità dei reati corruttivi quali reati di difficile emersione, si è previsto che il tempo di prescrizione sia la pena edittale massima aumentata della metà (e non di un quarto come per i reati comuni).

Per i reati di corruzione (propria e impropria), corruzione in atti giudiziari, induzione indebita e truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche, reati che notoriamente emergono molto tempo dopo essere stati commessi, il termine di prescrizione è infatti pari alla pena edittale aumentata della metà.

Stiamo cioè parlando di tempi di prescrizione del reato che arrivano a 18 anni, un tempo più che adeguato per garantire allo Stato una risposta punitiva, e oltre il quale non appare lecito spingersi per non modificare quell’equilibrio precario tra la pretesa punitiva, il diritto all’oblio, e i principi costituzionali della pena.

La riforma introdotta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, che interrompe definitivamente la prescrizione dopo tutte le sentenze di primo grado, non appare giustificata da una seria analisi degli impatti della riforma precedente, e modifica gli equilibri dianzi detti spostandoli nella direzione di una dilatazione eccessiva della pretesa punitiva dello stato, che rischia di minare alcuni principi costituzionali.

In particolare ci si riferisce alla ragionevole durata del processo sancita dall’art. 111 della Costituzione, perché, non essendovi più alcun limite di fatto alla durata dei procedimenti, nulla esclude che vi siano condanne pronunciate dopo un tempo inaccettabilmente lungo dalla commissione di un reato, destinate per ciò solo anche a vanificare i principi rieducativi della pena di cui all’art. 27 della Costituzione.

E a nulla valgono le considerazioni che fanno leva sulla riduzione delle impugnazioni che la riforma potrebbe garantire, poiché i condannati in primo grado che sperano di essere dichiarati innocenti ovviamente non rinunceranno all’appello, e lo stesso faranno coloro che cercheranno semplicemente di ritardare il più possibile una sentenza di condanna definitiva.

Dunque un allungamento dei tempi del processo, già oggi eccessivi, pressoché certo, il tutto in funzione di una pretesa punitiva dello Stato che si dilaterebbe in modo smisurato e non ragionevole.

Allo stesso modo, l’argomentazione che sostiene che gli effetti della riforma si produrranno solo tra qualche anno non appare convincente.

Dal prossimo gennaio 2020, data di entrata in vigore delle norme in materia di prescrizione previste dall’articolo 1, comma 1, lettere d), e) e f) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, tutte le indagini e i processi su nuove ipotesi di reato potranno sfruttare infatti l’intera durata della prescrizione, oggi necessariamente spalmata per i tre gradi di giudizio, per arrivare alla sola sentenza di primo grado.

I procedimenti saranno, in questo modo, destinati inevitabilmente ad allungarsi in modo corrispondente. Non solo, ma i processi di appello su fatti avvenuti dopo la data del 1 gennaio 2020 avverso patteggiamenti o giudizi immediati, che arriveranno a breve, non potendo più prescriversi, potrebbero, fatalmente, finire in coda a coda a tutti gli altri.

È allora necessario intervenire per modificare la riforma approvata nel gennaio 2019, apportando modifiche utili a garantire l’obiettivo da essa perseguito, ovvero evitare la prescrizione nei processi in appello, senza sacrificare l’esigenza di un indagato di essere giudicato in tempi non eterni.

A questo proposito, si può intervenire introducendo un termine di durata massima del processo di appello, che garantisca tempi certi e impedisca i giudizi eterni oppure, come questa proposta di legge dispone, si può modificare la riforma del 2017 al fine di rendere ancora più stringente l’obiettivo da essa perseguito, e cioè spalmando, i tre anni di sospensione aggiuntiva di durata della prescrizione non più per metà dopo la sentenza di condanna di primo grado e per metà dopo quella di appello, ma due anni nel primo caso e un anno nel secondo, tenuto conto del fatto che è esattamente in appello che oggi si prescrive il maggior numero di reati, mentre è trascurabile il loro numero presso la Cassazione.

Accanto a ciò, la proposta tiene conto dei tempi aggiuntivi che si possono verificare in caso di rinnovo dell’istruzione dibattimentale in appello, disponendo in tali casi un’ulteriore sospensione pari a sei mesi.

In questo modo si rafforza l’obiettivo, che è quello di evitare la prescrizione dei reati in appello, e non si vanifica l’esigenza di un tempo limite per il giudizio.

 

 

Art. 1

 

  1. Al codice penale all’articolo 159 il secondo comma è sostituito dal seguente:

 

“Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna, per un periodo di due anni, quando è proposto appello o è presentata opposizione, aumentato di ulteriori sei mesi se nel giudizio di appello è disposta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale o se in quello successivo all’opposizione si verifica una ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma. Esso è altresì sospeso, per un periodo di un anno, dalla pronuncia della sentenza nei cui confronti è proposto ricorso per cassazione. Decorsi gli indicati periodi di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso se non è stata pronunciata la sentenza conclusiva del grado.”.