Signora Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, la discussione generale sul disegno di legge n. 2081 in materia di unioni civili ha già registrato numerosi interventi, in molti dei quali mi ritrovo pienamente, a partire dalla relazione della collega Cirinnà.
Sono stati richiamati vari articoli della Costituzione, a partire dall’articolo 2 in materia di diritti inviolabili dell’uomo, indicato dalla Corte costituzionale come fondamento dell’auspicato riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale; l’articolo 3 e l’articolo 29.
Si è detto che sarebbe discriminatorio riservare l’istituto giuridico delle unioni civili alle coppie dello stesso sesso e non estenderlo alle coppie eterosessuali. Non è così. Si parte da una situazione, quella attuale, che esclude le coppie omosessuali dal matrimonio. Si ricorre ad un istituto giuridico ad hoc per queste ultime perché, nell’ordinamento giuridico italiano, il matrimonio come disciplinato dal codice civile è riservato espressamente a persone di sesso diverso. Con l’istituto dell’unione civile si colma un deficit di tutela delle coppie omosessuali, peraltro in adempimento di un obbligo positivo del legislatore, più volte segnalato dalla Consulta. Estendere il nuovo istituto alle coppie di sesso diverso avrebbe significato porre il nuovo istituto in concorrenza con il matrimonio, mettendo in discussione quella centralità dell’istituto matrimoniale che il nostro ordinamento garantisce.
Nel mio intervento sulle pregiudiziali, al quale rimando sul punto, mi sono soffermata sulla giurisprudenza della Corte costituzionale e segnatamente sulla definizione dell’unione omosessuale contenuta nella sentenza n. 138 del 2010.
Oggi vorrei soffermarmi, in particolare, sulla giurisprudenza internazionale della Corte europea dei diritti dell’uomo, con un richiamo anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia del Lussemburgo. Si tratta di un aspetto non adeguatamente valorizzato che merita un approfondimento, anche in considerazione del valore che viene attribuito alla CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che vincola ben 47 Stati, tra cui l’Italia, soprattutto a seguito delle cosiddette sentenze gemelle della Corte costituzionale italiana.
Voglio richiamare innanzitutto, per rendere tutto più comprensibile, le norme della Convenzione su cui si è sviluppata la discussione. Si tratta dell’articolo 8 (Vita privata e familiare), dell’articolo 12 (Diritto al matrimonio), dell’articolo 14 (Divieto di discriminazione). A queste norme occorre aggiungere l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo la quale «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
Passando alla giurisprudenza della Corte, con riferimento alle coppie omosessuali e ai loro diritti, particolarmente importanti sono le sentenze che di seguito si richiamano, insieme ad alcuni significativi stralci, tradotti dal francese o dall’inglese, da sentenze che comunque fanno parte della rassegna depositata agli atti della Commissione giustizia.
Comincio con il citare la causa di Schalk e Kopf contro l’Austria del 24 giugno 2010. La Corte, dopo aver richiamato l’interpretazione tradizionale dell’articolo 12 della Convenzione che riguarda il diritto al matrimonio, fondata sul dato letterale (la norma si riferisce a «l’uomo e la donna»), opera una comparazione tra il predetto articolo 12 e l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Osserva la Corte (leggo testualmente perché è importante usare proprio i termini che si ricavano dalle sentenze): «Il commentario alla Carta, che è divenuta giuridicamente vincolante nel dicembre 2009, conferma che l’articolo 9 vuole avere un campo di applicazione più ampio dei corrispondenti articoli contenuti in altri strumenti di tutela dei diritti umani. Allo stesso tempo, il riferimento alla legislazione nazionale riflette la diversità delle regolazioni nazionali che spaziano dal riconoscimento dei matrimoni omosessuali al loro divieto esplicito. Facendo riferimento alla legislazione nazionale, l’articolo 9 della Carta lascia decidere agli Stati se permettere o meno i matrimoni omosessuali. Nelle parole del commentario – prosegue la Corte – si legge che “Si può affermare che non vi è ostacolo al riconoscimento delle relazioni omosessuali nel contesto del matrimonio. Tuttavia, non vi è alcuna disposizione esplicita che preveda che le legislazioni nazionali siano tenute a favorire tali matrimoni”». E su tale presupposto afferma:«Tenuto conto dell’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12 (della CEDU) debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l’articolo 12 sia inapplicabile alle richieste dei ricorrenti. Tuttavia, allo stato attuale, la questione se permettere o meno il matrimonio omosessuale è lasciata alla legislazione nazionale dello Stato contraente».
In un altro punto della stessa sentenza si legge che la Corte considera artificioso mantenere il punto di vista in base al quale, a differenza delle coppie eterosessuali, una coppia omosessuale non possa godere di una vita familiare ai sensi all’articolo 8. Conseguentemente, l’unione dei ricorrenti – una coppia dello stesso sesso che coabita e vive in una stabile unione di fatto – rientra nella nozione di vita familiare, così come l’unione di due persone di sesso diverso che si trovano nella stessa situazione. La Corte conclude, quindi, che le vicende del caso in esame rientrano sia nella nozione di «vita privata» sia in quella di «vita familiare», ai sensi dell’articolo 8. Conseguentemente, trovano applicazione, in combinato disposto, gli articoli 8 e 14 della Convenzione. La Corte arriva a tale conclusione partendo dalla premessa che le coppie dello stesso sesso hanno la medesima capacità di quelle di sesso diverso di entrare in una stabile e seria relazione. Pertanto, esse si trovano in una situazione molto simile – dice la Corte – a quella delle coppie eterosessuali per quanto riguarda il bisogno di riconoscimento legale e di protezione del loro rapporto.
Potrei citare un’altra causa, contro la Grecia del 7 novembre 2013, in cui la Corte sostanzialmente ribadisce quanto affermato. Mi soffermo invece sulla causa Oliari e altri contro l’Italia (del 21 luglio 2015). Nella sentenza si legge che la Corte ritiene che la necessità di ricorrere ripetutamente ai tribunali interni per sollecitare parità di trattamento in relazione a ciascuno dei molteplici aspetti che riguardano i diritti e i doveri di una coppia, specialmente in un sistema giudiziario oberato come quello italiano, costituisca già un ostacolo non irrilevante agli sforzi dei ricorrenti volti a ottenere il rispetto della propria vita privata e familiare. E ancora, la Corte ritiene che, in assenza di matrimonio, le coppie omosessuali quali i ricorrenti abbiano particolare interesse a ottenere la possibilità di contrarre una forma di unione civile o di unione registrata, dato che questo sarebbe il modo più appropriato per poter far riconoscere giuridicamente la loro relazione e garantirebbe loro la relativa tutela senza ostacoli superflui.
In sintesi, dalle sentenze della Corte citate, si evince che: le unioni omosessuali sono protette dagli articoli 8 e 14 della Convenzione; alle coppie omosessuali può in astratto essere riferito anche l’articolo 12 della Convenzione in materia di matrimonio, salva la competenza dei singoli Stati a legiferare in questa materia; non vi è l’obbligo di estendere il matrimonio alle coppie omosessuali, vi è però un obbligo positivo per il legislatore di intervenire per disciplinare le unioni omosessuali, con una regolazione non discriminatoria.
La citata giurisprudenza della Corte europea converge con i desiderata e i moniti della Corte costituzionale italiana (nello specifico, faccio riferimento alle sentenze nn. 138 del 2010 e 170 del 2014).
Quanto alla giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo – alla quale accenno soltanto – occorre ricordare come essa, in tutti i casi in cui sia stata investita delle questioni di disparità di trattamento tra il matrimonio e le unioni civili, abbia sempre ritenuto l’insussistenza di irragionevoli motivi che giustificassero tali disparità di trattamento. In particolare, fino ad oggi, è stata ritenuta illegittima la disparità di trattamento con riguardo alla materia fiscale, alle imposte di successione al trattamento dei lavoratori (sussidio di malattia), al trattamento pensionistico, con particolare riguardo all’accesso alla pensione di reversibilità.
Passo quindi all’altro argomento. È molto importante non essere emotivi quando si parla di questi temi, e, anzi, mi fa piacere avere affidato a riflessioni scritte questo mio pensiero.
Con riferimento al tema dell’adozione del figlio del partner e dell’adozione in generale, va segnalato che nella giurisprudenza della Corte europea non emerge un obbligo di garantire l’adozione agli omosessuali (singoli o in coppia) ma, se l’adozione è prevista per i single, questa deve essere garantita indipendentemente dall’orientamento sessuale. Lo si legge scritto in particolare in una sentenza contro la Francia del 22 gennaio 2008 (ricorrente E.B.). Scrive la Corte che le autorità interne, per rigettare la domanda di adozione presentata dalla ricorrente, hanno operato una distinzione basata su considerazioni riguardanti l’orientamento sessuale, distinzione che non può essere tollerata in base alla Convenzione. Vi è quindi violazione del combinato disposto degli articoli 8 e 14 della CEDU. Ancora, se è consentita l’azione per le coppie conviventi di sesso diverso, deve esserlo anche per le coppie dello stesso sesso.
Cito un’altra sentenza contro l’Austria (ricorrenti X e altri) del 19 febbraio 2013. Si legge nella sentenza: «In conclusione la Corte ritiene che vi sia stata una violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione, poiché la situazione del ricorrente è equiparabile a quella di una coppia eterosessuale non coniugata nella quale uno dei partner desidera adottare il figlio dell’altro».
Inoltre, c’è sempre attenzione all’interesse del minore, che deve prevalere su ogni altra considerazione. Nello stesso senso si era d’altra parte orientata la Corte costituzionale in materia di riconoscimento dello status filiationis dei figli incestuosi con la sentenza n. 494 del 2002. In sintesi, i principi che se ne ricavano sono quello di non discriminazione degli omosessuali e quello dell’interesse superiore del bambino.
Ci sono state polemiche negli ultimi giorni, a seguito di una messaggio pubblicato su Twitter dal segretario generale del Consiglio d’Europa e di un’intervista all’Ansa del commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa. C’è chi ha vissuto questi interventi come un’interferenza. In realtà, il Commissario dei diritti umani e il Segretario generale del Consiglio d’Europa non hanno fatto altro che richiamare la giurisprudenza della Corte europea.
Mi avvio alle conclusioni – c’è il testo scritto – richiamando la sentenza della Cassazione n. 4184 del 2012. Questa sentenza testimonia due cose importanti: che l’interpretazione delle norme può evolversi nel tempo e che le innovazioni introdotte dalla giurisprudenza internazionale della Corte europea, se rappresentano una risposta a singoli casi, non possono non incidere sul sistema giuridico dei singoli stati.
Siamo in grave ritardo sui temi affrontati dal disegno di legge n. 2081. Dobbiamo procedere senza pregiudizi, ricordando che, come si legge nella sentenza della Corte costituzionale che ho richiamato qualche minuto fa, «la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti». Ben venga dunque il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, con connessi diritti e doveri. Ben venga una normativa che tenga distinti unioni civili e matrimonio, anche se personalmente la trovo fuori tempo. Evitiamo però mediazioni al ribasso che portino a soluzioni irragionevoli e discriminatorie. Non riconoscere l’adozione del figlio del partner dell’unione civile mentre per via giudiziaria la si sta riconoscendo per le coppie omosessuali, ancor prima dell’approvazione della normativa sulle unioni civili, sarebbe discriminatorio e soprattutto lesivo dell’interesse superiore del bambino al riconoscimento formale di un vincolo familiare che già esiste nella realtà. (Applausi dal Gruppo PD).