Il processo non vuol vedere il cuore nero di questa storia
Ilaria Cucchi, appena dopo la sentenza, ha detto: oggi mio fratello è stato ammazzato per la seconda volta. A ben vedere, con la sentenza di ieri, Stefano Cucchi è stato ucciso per la terza volta.
All`agonia – solo come un cane – nel reparto detentivo del Sandro Pertini, ha fatto seguito la seconda morte: l`orribile processo di stigmatizzazione della vittima, realizzato da molti media (un piccolo giornalista lo ha ostinatamente chiamato per mesi «il piccolo spacciatore di Torpignattara»); e da un parlamentare di questa Repubblica, al quale la virtù cristiana della misericordia degradata a odio sordo ha suggerito per Cucchi questa definizione: «anoressico tossicodipendente larva zombie»; e, infine, dai pubblici ministeri che hanno dedicato le critiche più aspre al morto e al suo stile di vita e ai suoi familiari piuttosto che ai responsabili di quella stessa morte. Ieri la sentenza di primo grado ha ucciso Cucchi per la terza volta. Ed è stato proclamato il fallimento delle indagini condotte dalla Procura, in quanto i poliziotti penitenziari sono stati assolti, non perché abusi e lesioni e violenze non si siano verificati, bensì perché la pubblica accusa non ha portato prove sufficienti della loro colpevolezza. E tra quelle violenze che, inequivocabilmente, sono state inferte all`interno delle celle di sicurezza del tribunale di Roma e la morte di Cucchi – afferma la sentenza – non vi sarebbe alcuna relazione.
Prima che un oltraggio al diritto, qui sembra consumarsi un`offesa al buon senso: Stefano Cucchi si trovava nel reparto detentivo dell`ospedale Sandro Pertini non certo perché intendesse sottoporsi a un check up. Bensì perché vi era stato ricoverato a seguito delle lesioni subite e delle condizioni di salute prodotte da quelle stesse lesioni. Vale la pena ricordare che una delle fratture accertate viene considerata dalla scienza medica tra le più dolorose che il corpo umano possa subire. Infine, la sentenza condanna alcuni medici per omicidio colposo, ma il senso finale sembra essere fatalmente uno: quello di ridurre la morte di Stefano Cucchi a un ordinario caso di malasanità.
Sfugge completamente il cuore nero di questa storia. E sfugge perché è tuttora saldo nel nostro Paese un senso comune, che contamina anche una parte della magistratura giudicante. L`idea perversa, cioè, che chi si trovi in una cella, in una caserma, in un reparto detentivo, in un ospedale psichiatrico giudiziario, in un centro di identificazione e di espulsione, perde i propri diritti o gran parte di essi. E, dunque, il suo destino, e ancor prima il suo corpo, si squalifichi, si deprezzi, perda peso e valore, venga «cosizzato».
Mentre è vero esattamente il contrario. Una persona che si trovi sotto la custodia dello Stato, dei suoi apparati, dei suoi uomini, deve essere considerato, dallo Stato, il valore più prezioso: un bene, direi, sacro. Per una ragione insieme elementare: perché la legittimità giuridica e morale dello Stato a chiedere lealtà e ubbidienza ai cittadini si basa sulla sua capacità di garantire l`integrità del corpo datogli in custodia, la sua incolumità fisica, e i suoi diritti. Ecco, di questo elementare diritto, le tante istituzioni che come in una dolente via crucis hanno trattenuto per otto giorni un giovane uomo di nome Stefano Cucchi (caserma e cella, tribunale e infermeria, reparto detentivo e pronto soccorso), hanno fatto semplicemente strame.

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