Che l’Europa sia a un punto di svolta si dice e si scrive da sessant’anni ogni qual volta fatti politici ne hanno messo a dura prova l’evoluzione integrazionista.
Fu così per il fallimento della Comunità della Difesa dopo la guerra in Korea, per la stasi prima del rilancio di Messina, per la crisi della sedia vuota di De Gaulle, per i no della Thatcher e via discorrendo. Ogni volta ci fu un colpo di reni, ogni volta l’Italia giocò un ruolo determinante nel recupero dello spirito costituente. Oggi siamo davvero, senza retorica, a uno snodo cruciale.
Le elezioni europee di pochi mesi fa hanno segnato l’affermazione dei partiti scettici e di quelli nazionalisti. Il loro trionfo, da qualcuno annunciato, non si è realizzato ma l’avanzamento significativo delle loro forze contenuto dal sistema europeista ci pone nella condizione di dare risposte alla domanda dei popoli di giustizia sociale, maggiore democraticità, lotta alla corruzione, sostenibilità ambientale.
La sottovalutazione di quanto si muove profondamente nella società europea può essere esiziale. La consapevolezza della Presidente Van der Layen lascia ben sperare anche se non deve illuderci. Nel suo discorso programmatico la neo presidente della Commissione offre una visione ambiziosa dell’Europa del futuro e lo fa, per molti sorprendentemente, in una chiave per molti versi progressista. L’Europa “il primo continente neutrale dal punto di vista climatico dal 2050″ segna la svolta ambientalista di un Green Deal per il continente.
Il sostegno all’economia “sfruttando tutta la flessibilità consentita dalle regole” sembra mettere per la prima volta in crisi il dogma dell’austerità. La necessità di un ‘Pilastro per i diritti sociali’ pone la giustizia sociale, l’accesso universale all’assistenza sanitaria e all’istruzione per la prima volta tra le priorità dell’Unione. Il ‘dovere di salvare vite umane e di rispettare la dignità di ogni persona’ è un caposaldo ribadito nella tutela dei diritti dell’uomo nel rapporto tra Ue e fenomeni migratori. Il “sostegno al diritto di iniziativa legislativa del Parlamento europeo” rafforzerebbe il tasso di democraticità delle istituzioni europee avvicinandolo alle architetture democratiche degli stati nazionali.
Questi orientamenti politico programmatici quanto impatteranno davvero, in termini di cambiamento dei fondamentali dell’Unione? Quanto saranno capaci di promuovere la “svolta” che è oggetto della riflessione di stamane e che ci domanda la società europea? E quanto condizioneranno positivamente le scelte e la pratica del nuovo governo italiano?
Diciamola tutta: il combinato disposto tra riforma del patto di stabilità e manovra finanziaria italiana sarà la cartina di tornasole del nuovo corso in Italia e in Europa.
Personalmente resto convinto che non ci troveremo di fronte a palingenesi, a inversioni a “u”, a cambiamenti di paradigma, bensì ad aggiustamenti progressivi del quadro di regole di bilancio europee.
E che il modo più efficace di cui disporranno il presidente Conte e il ministro Gualtieri per godere dei margini più ampi possibili sarà insinuarsi nelle pieghe della flessibilità a regole vigenti che già il Patto di Stabilità e Crescita attribuiscono, e farlo attraverso l’adesione al new green deal citato dalla Van der Layen.
Mi spiego meglio.
Per molti anni dal fronte socialista del Parlamento, che ho avuto l’onore di guidare, ci siamo battuti per superare il dogma dell’austerità che ha caratterizzato decenni di politiche rigoriste e recessive in Europa. E questo superamento lo pensavamo chiedendo di restituire piena dignità a entrambi i sostantivi del Patto di Stabilità e Crescita economica dell’Unione, chiedendo la flessibilità non fosse una sporadica e arbitraria concessione ma che nuovi investimenti pubblici e privati e scelte economiche e fiscali espansive fossero centrali per realizzare una crescita duratura e sostenibile per il continente. Questa battaglia trovò a lungo opposizione radicale nei popolari e persino una certa tiepidezza in settori conservatori nordici degli stessi socialisti.
Ora siamo in una fase diversa.
L’arretramento dell’economia tedesca, la guerra dei dazi tra Stati Uniti e resto del mondo, l’uscita scomposta della Gran Bretagna, la crescita dei populismi di matrice sovranista sono nubi che si addensano sull’economia europea e mondiale e possono favorire un cambio di paradigma. O almeno un allentamento dei rigori del Patto.
Questo allentamento può e deve essere ricercato soprattutto facendo leva sull’economia verde. Nella lettera che la Commissione, in quel di maggio, ha spedito all’Italia c’era già un richiamo forte al nostro Paese per la scarsità di investimenti green. Per raggiungere i traguardi ambientali previsti per il 2030, Bruxelles ci chiede investimenti su infrastrutture energetiche e di trasporto sostenibili, nuove ferrovie e reti. E questa lettera era precedente al cambio di governo europeo e italiano. Ora, l’occasione è assai più propizia.
L’Italia, che ha in Gentiloni una delle figure di punta in Commissione, può chiedere a gran voce, e con speranza di essere ascoltata, un nuovo patto: lo scorporo degli investimenti ambientali dal calcolo del deficit. Quella cioè che taluni chiamano la Golden Green Rule. Se riuscissimo a inaugurare una genesi di grandi investimenti contro il dissesto idrogeologico, di potenziamento delle energie rinnovabili, di cambiamento radicale del trasporto, da gomma a ferro, di sostegno alla trasformazione circolare del rifiuto, di ammodernamento della rete idrica finiremmo di fatto per alleggerire di molto il regime vincolistico europeo, ridando fiato alle nostre imprese, facendo ripartire economia e occupazione, migliorando la qualità della vita, della salute, dell’aria delle nostre comunità. La sfida, io penso, è innanzitutto qui.
Invertire la rotta, senza estremismi ecologisti e anzi sapendo che tra nuova economia e ambiente v’è un circolo virtuoso di crescita, non di decrescita felice. In queste settimane, la teutonica Merkel fa lo stesso. Noi possiamo fare come e meglio della Germania su questi temi. E aggiungerei che in questo vi è anche la sfida della nuova sinistra.
Non solo per le giuste rivendicazioni che il popolo degli studenti avanza sulla scia di Greta Thunberg. Ma anche perché, se la sinistra vuole ripartire, devono ripartire le industrie. Deve rimettersi in moto la macchina dei lavori pubblici. Vanno costruite case, ponti, autostrade, infrastrutture. Solo con una forte economia e un sistema produttivo definito, la sinistra ritrova un popolo che ha consapevolezza identitaria, che ha quello che una volta si chiamava “spirito di classe”, e che oggi la nuova frontiera delle grandi partite ambientali può rinnovare.


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