Senatore Zanda, il tema di questa conversazione è “come il virus cambia la democrazia parlamentare”. L’ha già chiusa?

No, ma proprio questo è il rischio da evitare. Partiamo da qui: ormai è chiaro a tutti che la crisi da Coronavirus sta mutando in qualcosa di molto più ampio, rispetto a come avevamo immaginato all’inizio.

Prosegua.

Non è solo una crisi economica e sociale, e nemmeno solo una crisi del nostro modello di vita, dei nostri costumi. O di sicurezza come abbiamo visto due giorni fa con la rivolta delle carceri. O nemmeno solo crisi nei rapporti interazionali con parecchi paesi che chiudono i voli per l’Italia. O ancora crisi della stessa ragion d’essere dell’Europa che, se non interviene con concretezza, perde la sue ragione di esistere. Questa è una mutazione anche del nostro sistema politico.

Che, peraltro, è entrato in questa emergenza in condizioni di grande fragilità: un governo traballante, un Parlamento non più specchio del paese, una torsione populista delle strutture democratiche.

Ecco, poi il virus. Mi ha colpito molto quello che è accaduto ieri. Che possano votare assieme maggioranza e opposizione, in una situazione di questo tipo, è giusto. Ma il punto non è questo. Il punto sono le modalità con cui ieri deputati e i senatori hanno votato, quasi che l’obiettivo fosse quello di raggiungere, in qualche modo, la maggioranza e di andare in fretta a casa. E non il “come” la maggioranza veniva raggiunta. Peccato, a me avrebbe fatto piacere veder votare simultaneamente il provvedimento nei due rami del Parlamento, e non semivuoti.

Mettiamola così: ieri c’è stato un gentlemen agreement, tra le forze politiche di fronte al pericolo di contagi. È il più grande stravolgimento parlamentare della storia della Repubblica reso necessario dal più grande stravolgimento sanitario. Che cosa c’è di sbagliato?

È una questione molto delicata su cui si deve stare molto attenti, perché bisogna sempre saper conciliare stato di eccezione e Stato di diritto. Ieri abbiamo visto alla Camera l’autoriduzione del numero dei votanti, la non richiesta di un numero legale e al Senato il voto a scaglioni e la limitazione della presenza in aula di parlamentari a cui era stata già misurata la febbre e distribuita l’amuchina. Quello che lei ha chiamato gentlemen agreement per me è un passo ulteriore che acuisce la crisi del Parlamento e delle istituzioni democratiche.

Adesso si aperta una discussione sulla necessità di adeguare i regolamenti del Parlamento a questa situazione prevedendo il voto online o telefonico.

Sono assolutamente contrario. Sarebbe la distruzione del Parlamento e quindi del cuore della democrazia.

Perché non è al contrario la sua salvezza, perché consente al Parlamento di stare aperto in tempi di contagio estremo?

Mi consenta di fare un punto, un po’ articolato. Noi da qualche decennio stiamo assistendo a una trasformazione lenta, ma radicale e profonda della democrazia parlamentare in qualcosa di molto diverso e certamente di meno democratico.

Almeno da trent’anni.

Esattamente. La prima fase ha vista l’affermarsi della pratica del decreto legge e del voto di fiducia, trasferendo il potere dalle Camere al governo. La seconda è la sostituzione voluta da Berlusconi del sistema elettorale: dai collegi alle liste di nominati, modello che poi ha fatto scuola. Già questo ha indebolito la democrazia italiana. Adesso siamo alla terza fase. L’emergenza coincide con una modifica delle forme di presenza e delle modalità di voto. Fino a ipotizzare il voto telefonico o telematico, quasi che si trattasse di una innovazione utile a rendere più forte il Parlamento invece che, sostanzialmente, di distruggerlo.

Ripeto, perché distruggerlo?

Le ragioni sono nella Costituzione stessa. Perché la Costituzione non lo prevede neanche una volta sola, che si possa telefonare o mandare messaggi? Perché si chiama Parlamento in quanto la sua volontà si deve formare nel confronto, non ciascuno a casa propria. Si deve riunire: questo prescrive la nostra Carta. Attenzione poi, il voto a domicilio è contraddittorio con la libertà di mandato.

Senatore Zanda, leggendo questa intervista, in parecchi diranno che sono dettagli: la gente muore, c’è un’emergenza mai vista, e “voi parlate di procedure”, insomma chissenefrega. Già mi sembra di leggere i commenti sotto questa nostra chiacchierata.

Non mi scompongo e mi rifiuto di pensare che l’emergenza sia incompatibile con la democrazia parlamentare. Questo tema, personalmente, lo sento molto. Io ho una educazione civile non accademica, ma che viene da un lunga storia personale. Prima ancora di entrare in politica ho imparato il significato vero di alcune parole: democrazia, divisione dei poteri, Stato di diritto. Per me sono assolutamente irrinunciabili. Dunque, dico: in Italia migliaia di persone rischiano di essere contagiate per fare il loro lavoro. Uguale coraggio deve dimostrare il Parlamento, soprattutto in una fase in cui il governo è costretto ad operare nella forma di gabinetto di emergenza.

Ecco, questo è il punto. Quanto sta accadendo in questi giorni è al limite della costituzionalità, anche se è inevitabile in circostanze come quelle attuali. Il rischio è che faccia precedente, anche dopo la scomparsa del virus.

È un quadro molto delicato. Come le dicevo, va conciliato lo stato di eccezione con lo Stato di diritto. E dobbiamo farlo cercando di tenere la mente fredda. Gli editti, le semplificazione, i richiami all’ordine hanno spesso il consenso popolare, si pensi a Salvini che ha costruito la sua fortuna politica sugli editti in materia di chiusura dei porti. Nessuno può pretendere razionalità da cittadini impauriti. Chi deve mantenere razionalità è chi governa e chi sta in Parlamento.

Lei mi sembra l’unico nel Pd a sollevare il tema.

Questo non lo so. So che questo indebolimento progressivo della democrazia va inquadrato nello scontro in atto tra democrazie e sistemi autoritari: la destra autoritaria ha tutto da guadagnare nelle progressiva chiusura del Parlamento e chi ne può uscire sconfitta è la sinistra democratica.

Al momento il Parlamento è chiuso.

Si è riunito ieri ed è stato convocato per il 25 marzo, con una cadenza come i negozi. È inconcepibile. Si può rallentare, si possono prendere le cautele del caso, ma, come il governo, deve essere presente e deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave. L’emergenza non può chiudere la democrazia come un negozio.


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