Teresa Bellanova è stata vice ministro allo Sviluppo economico dal 2016, dopo essere stata nominata sottosegretario al lavoro nel 2014 nel governo di Matteo Renzi. Ha seguito i dossier più delicati arrivati sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico, tra cui Condotte, Magona e Aferpi. Le ultime due si intrecciano con la complicata vicenda dell’Ilva di Taranto e, più in generale, con la strategia del governo sul futuro della produzione di acciaio in Italia.
È preoccupata per le dichiarazioni fatte dal neo ministro Luigi Di Maio a proposito dell’Ilva? Teme eventuali ricadute anche su Piombino?
«Sono parole che mostrano una totale irresponsabilità. C’è un contratto fatto tra due forze politiche che in campagna elettorale hanno detto cose completamente diverse sulla produzione di acciaio in Italia, con la Lega che vuole mantenerla e i Cinque Stelle che vogliono chiudere gli impianti. E il presidente del Consiglio non ha avuto la forza di dire una parola chiara al Parlamento, in un momento di folte tensione interna zionale per questo settore».
Si riferisce ai dazi minacciati dal presidente degli Stati Uniti, Do nald Trump?
«Sì. I dazi minacciati da Trump non sono caramelle per i lavoratori. Serve la statura di uomo di governo: il presidente del Consiglio, e non altri, deve dire una parola chiara e pretendere una posizione chiara dal ministro dello Sviluppo economico: in Europa rischiamo di perdere molti posti di lavoro nel settore dell’acciaio, oltre 20 mila a Taranto, duemila a Piombino. L’Italia ha bisogno di produrre acciaio, anche per mantenere competitivo tutto il sistema manifatturiero».
Cosa serve per assicurare un futuro alle acciaierie di Piombino?
«Bisogna continuare il lavoro che abbiamo impostato con Jindal, seguendo attentamente il passaggio di proprietà per avere continuità lavorativa per tutti i lavoratori. Ed è necessario che a Piombino si torni a colare acciaio, l’acciaio di qualità che ci rende molto competitivi sui mercati globali. Sarebbe il caso che il presidente del Consiglio lo capisse. E bisogna mostrare verso i lavoratori il rispetto che meritano: i dipendenti di Aferpi non hanno mai chiesto gli ammortizzatori sociali, hanno sempre mantenuto un grande rigore chiedendo di poter tornare a lavorare».
Pensa che il governo che lei ha rappresentato abbia fatto un buon lavoro per Piombino? Cevital non si è rivelata un buon affare…
«A Piombino ci siamo presi delle responsabilità enormi, dicendo a Issad Rebrab che doveva cercare un nuovo partner o cedere perché lì non si poteva consumare un disastro. Cevital non portava avanti gli investimenti annunciati e quindi siamo intervenuti, insieme alla struttura commissariale, per trovare un’alternativa. Adesso bisogna proseguire il percorso avviato con il gruppo Jindal ed avere la certezza che tutti i lavoratori vengano riassunti».
Alla partita dell’Ilva è strettamente legato anche il futuro della Magona, che l’Antitrust europeo ha imposto ad ArcelorMittal di cedere.
«Nemmeno un posto di lavoro deve essere perso. Non c’è un problema di qualità o di produzione, ma il rispet to delle prescrizioni Antitlllst. Ci so no quindi le condizioni per tutelare l’impianto ma occorre che qualcuno si sieda al tavolo e aiuti le pati a tro vare una soluzione».
Cambiando segmento, c’è la crisi di Condotte, il colosso ro mano di costruzioni, la cui crisi sta mettendo a rischio la realiz zazione di molte opere strategi che, tra le quali il sottoattraver samento dell’Alta velocità ferro viaria a Firenze: a che punto siamo?
«Al punto che bisogna portare avanti il confronto al tavolo che è stato aperto al ministero e bisogna tenere presente che determinate scelte hanno ricadute importanti: se si bloccano le grandi opere invece di impegnarsi per accelerare i lavori, se si sta a discutere sul ruolo e le funzioni di Raffaele Cantone (il commissario anticorruzione, ndr) si perde tempo a parlare d’altro. Sarebbe meglio occuparsi delle ricadute che certe scelte hanno sulle Pmi e sui po sti di lavoro».
Sulla base dell’esperienza fatta al ministero dello Sviluppo in questi quattro anni, cosa direb be al nuovo esecutivo?
«Gestire e risolvere le crisi aziendali richiede pazienza, competenza e rigore. E soprattutto bisogna lavorare tanto. Un buon primo passo, dopo oltre 90 giorni, sarebbe decidersi a completare la struttura del governo, facendo partire le commissioni: così si potrebbe riprendere a lavorare. Non si può rischiare di buttare via il lavoro fatto finora».


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