Ho votato sempre a favore della insindacabilità delle dichiarazioni dei parlamentari, spesso in dissenso rispetto alle decisioni adottate dalla Giunta per le autorizzazioni e dal mio gruppo senatoriale. L’ho fatto perché ritengo che si debba interpretare nella maniera più ampia e incondizionata la libertà di pensiero e di parola; che una società democratica abbia la forza, debba avere la forza, di accettare le critiche dei suoi contestatori, anche i più radicali; e che la lotta politica non debba essere sottoposta a censure preventive e a interdizioni morali, se non quando volontariamente scelte dall’interessato. E tuttavia, ho votato a favore della sindacabilità delle parole pronunciate dal senatore Calderoli contro Cecile Kyenge: ‘quando vedo uscire delle sembianze di orango, io resto ancora sconvolto’ (Treviglio, luglio 2013). Qui l’offesa da prendere in considerazione non è quella indirizzata contro l’appartenente a un’etnia, a una confessione religiosa, a una minoranza straniera: qui l’offesa è indirizzata, piuttosto, contro l’elemento costitutivo della persona. Ovvero la sua dignità e l’immagine pubblica di essa. Ecco, la dignità è il limite – a mio avviso l’unico – che deve essere posto alla più piena e illimitata libertà di parola. Perché, attraverso quella comparazione tra una donna di origine africana e un orango si attua una vera e propria procedura di degradazione della persona e della sua identità. E qui interviene il discorso della insindacabilità. Nonostante l’abuso che se ne è fatto – e i mutamenti avvenuti nel quadro politico istituzionale – io considero l’insindacabilità una tutela importante del parlamentare. Un filtro necessario a garantirne l’autonomia e l’indipendenza. E tuttavia – come Corte costituzionale e Cedu hanno più volte chiarito – il limite che il mandato parlamentare, pur nel suo più ampio e libero esercizio, non può superare è quello della dignità umana. La cui violazione degrada quell’essenziale prerogativa democratica in un inaccettabile strumento di prevaricazione e umiliazione dell’altro. Soccorrono qui le parole di Karl Popper (che notoriamente non era né un marxista-leninista-stalinista né un giustizialista): ‘dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti’.

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