Luigi Manconi resta nel Pd, si schiera con Andrea Orlando e aderisce al Campo progressista di Giuliano Pisapia. Il senatore democratico è in sciopero della fame per sostenere l`azione nonviolenta della radicale Rita Bernardini per la riforma penitenziaria.
Perché lo sciopero?
«L`affollamento delle carceri ha ripreso a crescere e i suicidi si sono fatti più frequenti: 12 in due mesi. E questo, nonostante alcune buone cose fatte da Orlando: un`altra ragione per sostenerlo nelle primarie».
Crede anche lei che il ministro Lotti dovrebbe fare un passo di lato?
«Fino a quando la condizione è solo quella dell`indagato, la scelta delle dimissioni è personale: non va intimata politicamente e nemmeno consigliata pubblicamente. Veniamo da un ventennio in cui l`azione dei giudici ha surrogato quella della politica, sempre più gregaria e impotente. Ora, siamo ormai a una forma di soggezione psicologica nei confronti della magistratura che tende a farsi patologia».
Lei è sempre stato critico con Renzi, ma non ha seguito gli scissionisti. Perché?
«Nei giorni precedenti la scissione ho pubblicato un tweet, per così dire, di autocoscienza: “Mi si nota di più se mí scindo o se mi metto alla finestra, di profilo, in controluce?” Infine, sono rimasto nel Pd ribadendo la mia indipendenza e dichiarando l`adesione al Campo progressista di Pisapia. E ho fatto ricorso a una citazione classica: “Ancora una volta ho rimasto solo” (Don Backy, 1965 )».
Più utile lottare da dentro?
«Con quella citazione non intendevo solo segnalare la mia estraneità e minorità: esprimevo un disagio. Una sorta di refuso politico. Uno spaesamento rispetto alle dislocazioni partitiche tradizionali. Un partito non va inteso come una famiglia una chiesa o una enclave etnica, ma come uno strumento per raggiungere determinati fini, governato da regole democratiche. I fini del Pd oggi non mi sono chiari e le regole vengono troppo spesso mortificate».
Perché rimane allora?
«Negli anni mi sono convinto che per la sinistra e per le idee di sinistra è indispensabile un partito di massa, plurale e accogliente, capace di ospitare opzioni assai diverse secondo principi di democrazia. Nel 2009 ho scritto un libro: “Un`anima per il Pd”. Un capitolo era intitolato: “Perché non posso vivere senza Paola Binetti”. Lì spiegavo perché ritenessi possibile la convivenza nello stesso partito con chi è titolare di idee non solo diverse, ma totalmente opposte alle mie. Era un paradosso, ma fino a un certo punto».
Il Pd è ancora in grado di essere quel partito?
«Ha presente Ken Livingstone? Nel 2000 fu candidato a sindaco di Londra dalla minoranza del Labour (trotskisti compresi) e per questo espulso. Vinse e, insieme ai suoi sostenitori, venne riammesso. Quattro anni dopo divenne il candidato ufficiale del partito. Nel 2015 il Labour ha eletto segretario un altro radicale, Jeremy Corbyn. Che è stato dentro quel partito per 35 anni senza mai promuovere scissioni».
Traduco: i partiti cambiano, se sono democratici davvero.
«Credo nel ruolo indispensabile delle minoranze intellettuali e del pensiero radicale, ma sul piano organizzativo continuo a ritenere
necessario un partito largo e inclusivo. Se mi guardo intorno, Pisapia mi sembra il solo che possa se non unire, almeno sensibilmente avvicinare le varie componenti della sinistra, rappresentarle con intelligenza e proporre ro un programma comune».


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