Noi siamo qui dopo vittorie e sconfitte per superare limiti ed errori. Per dare corpo a un progetto di trasformazione incisivo e inclusivo. Direi per aggiornare il profilo politico del PD, facendone la dorsale del sistema democratico riformato e di un centrosinistra attraente.

 

Matteo Renzi ha scrollato l’albero di una struttura Paese incistata da conservatorismi, caste e oligarchie. Radicata in un riformismo proclamato e raramente praticato. È caduto anche qualche frutto sanno che sarebbe stato ben meglio non cadesse. Ma il progetto di liberare il Paese da ciò che Guido Carli definì lacci e lacciuoli non deve essere abbandonato. Altrimenti non recupereremo mai il gap di crescita che ci separa dal resto d’Europa. Per colpa nostra non dell’Europa. Con questi lacci non ci sarà crescita, non ci sarà inclusione, non ci sarà eguaglianza. Questa era la ragion d’ essere del PD dieci anni fa. Va ribadita oggi dallo stesso luogo. In un Occidente in cui la globalizzazione ha generato nuovi poveri in balia di populismi e sotto attacco dei fondamentalismi.

 

Contrariamente a ciò che sostengono alcuni che si sono purtroppo separati da noi, è la destra che esiste in natura non la sinistra. La sinistra nasce per contrastare e contenere ciò che un tempo si chiamava darwinismo sociale. Per promuovere inclusione. Perciò è colpa grave dividere e scindere, rinunciando a far vivere il pluralismo dentro di noi. Un grande italiano di questa città, Norberto Bobbio, ventitré anni fa scrisse un libro significativo, DESTRA E SINISTRA. Metteva in luce le radicali differenze tra le due nozioni socio-politiche. A chi si è separato da noi, ma penso anche ad alcuni di noi, sarebbe utile una rilettura di quel testo. Per aggiornare mappa e coordinate. Per scoprire che pur con errori evidenti questo Pd non ha smarrito la via.

 

Renzi ha compiuto diversi errori di approccio e di valutazione. Il quaranta per cento alle europee non era un’ investitura diretta ma la richiesta di aiuto di un popolo smarrito. Il referendum sulle trivelle non era un un atto contro la modernità ma un appello contro la globalizzazione che intimorisce. Il referendum costituzionale è passato per il suo contrario: una compressione di partecipazione e democrazia anziché la valorizzazione di entrambe. Un di meno invece che un di più. Errori politici che trovano origine nella ricerca di una relazione diretta tra leader e popolo, saltando tutto ciò che sta nel mezzo. Ma così il leader si fa popolo a caro prezzo e il popolo non si fa nazione. Ciò che sta nel mezzo in passato spesso ha generato concertazione e consociazione. Oggi deve indurre partecipazione e condivisione. Il salto produce lacerazioni e sconfitte, soprattutto in tempo di crisi. Soprattutto in un Paese a fragile tenuta, caratterizzato da una commistione tra conservatorismo di massa è riformismo virtuale che passa con troppa nonchalance da Piazza Venezia a Piazzale Loreto. È il riformismo a non essere un pranzo di gala, altro che rivoluzione. Perché la ragione non sempre sta con la maggioranza, ma senza maggioranza la ragione è irragionevolezza. Perciò non basta un leader illuminato e determinato. Serve una comunità. Serve un corpo partecipe, non un’intendenza che segue. Convinto e dunque convincente. Insomma serve un partito.

 

Ma di cambiamenti veri sono ricche le pagine dell’agenda di questi tre anni, seppur in condizioni proibitive data l’assenza di una maggioranza di Governo lineare e il permanere di un debito pubblico altissimo. Dunque la domanda di fondo è: al netto degli errori l’azione riformista immaginata e perseguita in questo tempo è servita e serve al Paese? Io penso sia servita e serva moltissimo. È la ragione per cui persone come me sono qui e non altrove. Io che non sono mai transitato dalla Leopolda penso che si possa andare oltre il Lingotto senza passare per Bad Godesberg. Noi dobbiamo impedire che la vittoria del no tiri il sipario sul cambiamento del sistema politico e istituzionale. Senza quel cambiamento è complicato governare l’economia e combattere le diseguaglianze. Trasformazione istituzionale inclusione sociale sono le due facce di una medesima medaglia. Quella medaglia si chiama civiltà democratica. Una grande cultura socialista, poi purtroppo perdutasi nei miasmi della questione morale, in quattro parole definì un progetto strategico: PROMUOVERE I MERITI E AFFRONTARE I BISOGNI. Da lì occorre ripartire. Non si può senza politica e senza cambiare la politica. Non si può senza Europa e senza cambiare l’ Europa. Non si può senza partecipazione e senza cambiare la Repubblica.

 

In questi anni ci abbiamo provato. Alcuni risultati sono venuti. Se Renzi non li rivendicasse sarebbe omissione di verità. Gli errori possono offuscare i risultati ma non cancellarli. È in corso un poderoso tentativo di ripristino dell’Ancien Régime. Con lo scopo di affrontare i populismi si fanno morire le diversità e le alternanze. Il ritorno al proporzionale della Prima Repubblica sarà l’asfissia della democrazia e non fermerà i populismi. Un ritorno oltretutto imperniato su partiti non più partiti, sradicati socialmente e spesso ridotti a grumi di potere. Occorre evitare assolutamente l’ inversione di rotta e portare a compimento una riforma elettorale e un impianto costituzionale di stampo maggioritario e diretto. La governabilità non è la negazione della democrazia ma il suo compimento nella libertà. Con un sistema equilibrato di pesi e contrappesi. Anche da qui può muovere un nuovo e moderno centrosinistra. Spero che dalle imminenti elezioni francesi venga una poderosa testimonianza a sostegno di queste esigenza italica.

 

Questo luogo, ciò che ne uscirà in termini di progetto, di visione costituisce ad oggi l’unico argine alla deriva. Dobbiamo raccontarlo. Per unire, dopo e oltre il quattro dicembre, chi convintamente ha votato sì e diversi che pur votando no non hanno smarrito le ragioni del cambiamento. Per questo il combaciare di Segretario e candidato leader non è velleità o carta straccia. È un vero combinato disposto sostanziale. È un’idea di democrazia repubblicana per riconnettere istituzioni e popolo. In questa resistenza che è speranza c’è voglia di futuro. C’è un’ idea di partito. C’è un’idea di Italia. E la stabilità potrà essere qualcosa di più della paura del voto che sorregge l’attuale continuismo parlamentare. Dunque niente paura come cantava Ligabue. Non stiamo andando contro il muro come diversi commentatori interessati e rassegnati ci dicono. Stiamo cercando di evitare che la breccia si chiuda. Non serve per questo coraggio, serve responsabilità verso il Paese e convinzione nei valori che ci hanno portati qui. Valori non di ex, non di post ma di gente presente che incarna le ragioni di un impegno che ci accomuna.


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