Non sono renziano ma ritengo che sostenere Renzi sia utile all’Italia. Perciò è necessario superare limiti ed errori, dare corpo a un progetto di trasformazione incisivo e inclusivo, aggiornare il profilo politico del PD, facendone la dorsale del sistema democratico riformato e di un centrosinistra attraente.
Matteo Renzi ha scrollato l’albero di una struttura Paese incistata da conservatorismi e oligarchie. Radicata in un riformismo proclamato e raramente praticato. È caduto purtroppo anche qualche frutto sano. Ma il progetto di liberare il Paese da “lacci e lacciuoli” che impediscono crescita inclusiva non va abbandonato. Altrimenti non recupereremo mai il gap che ci separa dal resto d’Europa. Questa era la ragion d’essere del PD dieci anni fa. Va ribadita oggi, in un Occidente in cui la globalizzazione genera nuovi poveri in balia di populismi e fondamentalismi.
Contrariamente a quel che sostiene chi ha rotto il PD, è la destra ad esistere in natura. Non la sinistra. La sinistra nasce per contrastare e contenere ciò che un tempo si chiamava darwinismo sociale. Per promuovere inclusione. Dunque è colpa grave dividere e scindere, rinunciando a far vivere il pluralismo nel Pd. Un grande italiano, Norberto Bobbio, scrisse un libro significativo: “Destra e sinistra”. Metteva in luce le radicali differenze tra le due nozioni socio-politiche. A chi si è separato dal Pd, ma anche ad alcuni che non lo hanno fatto, sarebbe utile una rilettura di quel testo. Per scoprire che pur con mancanze evidenti questo Pd non ha smarrito la via.
Renzi ha compiuto errori di approccio e di valutazione. Il 40% alle europee non era un’investitura diretta ma la richiesta di aiuto di un popolo smarrito. Il referendum sulle trivelle non era un atto anti modernità ma un appello contro la globalizzazione che intimorisce. Il referendum costituzionale è passato per il suo contrario: una compressione di partecipazione e democrazia anziché la valorizzazione di entrambe. Un di meno invece che un di più. Errori politici che trovano origine nella ricerca di una relazione diretta tra leader e popolo, saltando tutto quel che è nel mezzo. Ma così il leader si fa popolo a caro prezzo e il popolo non si fa nazione. Ciò che sta nel mezzo, in passato ha spesso generato concertazione e consociazione. Oggi deve indurre partecipazione e condivisione. Il salto produce lacerazioni e sconfitte, soprattutto in tempo di crisi e in un Paese a fragile tenuta, caratterizzato da una commistione tra conservatorismo di massa e riformismo virtuale che passa con nonchalance da Piazza Venezia a Piazzale Loreto. È il riformismo a non essere un pranzo di gala, altro che rivoluzione. Perché la ragione non sempre sta con la maggioranza, ma senza maggioranza la ragione è irragionevolezza. Perciò non basta un leader illuminato e determinato. Serve una comunità. Serve un corpo partecipe, non un’intendenza che segue. Convinto e convincente. Serve un Partito.
La domanda di fondo è: al netto degli errori l’azione riformista immaginata e perseguita in questo triennio è servita e serve al Paese? Sì, è servita e serve moltissimo. È la ragione per cui sostengo Renzi. Io, mai transitato dalla Leopolda, penso che si possa andare oltre il Lingotto senza passare per Bad Godesberg. Dobbiamo impedire che la vittoria del no tiri il sipario sul cambiamento del sistema politico e istituzionale. Senza quel cambiamento è complicato governare l’economia e combattere le diseguaglianze. Trasformazione istituzionale e inclusione sociale sono le due facce di una medesima medaglia. Quella medaglia si chiama civiltà democratica. Una grande cultura socialista in quattro parole definì un progetto strategico: “promuovere meriti, affrontare bisogni”. Da lì occorre ripartire. Non si può senza politica e senza cambiare la politica. Non si può senza Europa e senza cambiare l’Europa. Non si può senza partecipazione e senza cambiare la Repubblica.
È in corso un poderoso tentativo di ripristino dell’Ancien Régime. Con lo scopo di affrontare i populismi si fanno morire le diversità e le alternanze. Il ritorno al proporzionale sarà l’asfissia della democrazia e non fermerà i populismi. Un ritorno oltretutto imperniato su partiti non più partiti, sradicati socialmente e spesso ridotti a grumi di potere. Occorre evitare assolutamente l’inversione di rotta e portare a compimento una riforma elettorale e un impianto costituzionale di stampo maggioritario e diretto. La governabilità non è la negazione della democrazia ma il suo compimento nella libertà. Con un sistema equilibrato di pesi e contrappesi. Anche da qui può muovere un nuovo e moderno centrosinistra. Spero che dalle elezioni francesi giunga una poderosa testimonianza a sostegno di questa esigenza italica.
Il Pd che vuole Renzi, in termini di progetto e di visione, costituisce oggi l’unico argine alla deriva. Dobbiamo raccontarlo. Per unire, dopo e oltre il 4 dicembre, chi convintamente ha votato sì e diversi, che pur votando no, non hanno smarrito le ragioni del cambiamento. Per questo il combaciare di Segretario e candidato premier è un vero combinato disposto sostanziale. È un’idea di democrazia repubblicana per riconnettere istituzioni e popolo. In questa resistenza che è speranza c’è voglia di futuro. C’è un’ idea di partito. C’è un’idea di Italia. E la stabilità potrà essere qualcosa di più della paura del voto che sorregge l’attuale continuismo parlamentare.


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