Mettere in fila le cose, penso sia necessario per trovare il bandolo della matassa. E ripartire. Dunque: centrodestra e cinquestelle hanno vinto le elezioni. Il Pd le ha perse, molto male. I motivi della sconfitta sono tanti, ma penso soprattutto: aver rinunciato a costruire radicamento sociale, partecipazione, condivisione nei luoghi e tra le persone dove è più forte l’insicurezza sociale, e dove maggiore è la richiesta di protezione e la voglia di emancipazione. Per essere credibili nel pronunciare parole come «riscatto» ed «emancipazione» in quartieri dove manca il lavoro, manca la possibilità di studiare, manca la legalità, serve un discorso politico forte e potente. Noi non l’abbiamo avuto, se non per un periodo troppo breve, quello tra le primarie vinte da Renzi a fine 2013 e i primi anni della sua segreteria, quelli per intenderci della battaglia per rinnovare l’Europa, mettendo al centro lavoro e questione sociale, e della battaglia per rinnovare il campo dei socialisti europei, coinvolgendo forze nuove come Tsipras. Un arco di mesi in cui il Pd ha saputo mettere in campo una netta discontinuità rispetto al riformismo rinunciatario che nel 2011 ci portò a sostenere il governo tecnico di Monti, identificandoci agli occhi degli italiani con il partito del rigore e dell’austerità, alimentando l’antipolitica e aggravando le diseguaglianze. L’errore governista e tecnocratico del 2011, in nome di una malintesa «responsabilità», portò al deludente risultato delle politiche di due anni dopo, all’esplosione di Grillo, alla rimonta di Berlusconi.

La sconfitta del 2018, come la “non vittoria” del 2013, è una sconfitta politica. In questi mesi, mentre Lega e grillini trasmettevano un progetto politico di rottura (sbagliato e regressivo, ma capace di catalizzare umori e sentimenti predominanti), noi eravamo paralizzati dai veti interni, costretti a un dibattito estenuante, strampalato e politicista, che addirittura ci ha costretto a riesumare coalizioni inesistenti. Nel contesto della più grave crisi della rappresentanza, sia politica, sia sociale, associativa, di categoria, di fronte a una società inquieta, il gruppo dirigente della sinistra italiana ha risposto con interminabili discussioni sulla necessità di una coalizione tra pezzi di ceto politico! Questo estraneamento dai problemi reali ci ha resi incapaci di un discorso credibile, di una visione politica coraggiosa. Abbiamo sprecato energie in un politicismo esasperato, in posizionamenti per alimentare i retroscena dei giornali. Abbiamo trascorso la campagna elettorale a fare le pulci agli avversari, a dire quanto le loro proposte fossero incompatibili e irrealizzabili. Noi ridotti a fare i tecnici, loro in campo con la politica. Perché abbiamo rinunciato alla vocazione maggioritaria del nostro partito? Perchè abbiamo rinunciato a costruire un “grande Pd”? Di questo dovremmo discutere. Questo è il punto dirimente, identitario. Senza vocazione maggioritaria il Pd semplicemente non ha più ragion d’essere. Parlare, organizzare, dare protagonismo a chi sta pagando la crisi. Questa è la nostra funzione, la ragion d’essere della sinistra. Noi per primi non abbiamo avuto fiducia nel Pd, non abbiamo avuto consapevolezza del nostro ruolo. Di quanto grandi fossero le aspettative, quanto grandi le potenzialità, quanto grande la delusione (che è divenuta risentimento e voto contro).

Che fare adesso, dopo il 4 marzo? Penso che per noi democratici, per la sinistra riformista, per il Pd il punto sia: come ricostruiamo un discorso politico forte e radicale, dove protezione ed emancipazione si coniughino con solidarietà e comunità e non con cinismo e individualismo? E contestualmente: come reinventiamo una forma organizzativa aperta, coraggiosa, mutualistica che incarni il punto di vista di chi è escluso, che incentivi e interpreti in modo virtuoso l’enorme domanda di partecipazione che c’è nella nostra società (per non lasciare questa energia vitale nelle spire autoritarie e proprietarie degli algoritmi del “grande fratello” della Casaleggio associati o dei provini di Arcore)? Per ricostruire il nostro campo, per ritrovare la nostra funzione storica, la nostra vocazione maggioritaria, dobbiamo avere un’identità forte. Non possiamo essere stampella di governi altrui, né del centrodestra di Salvini, di Berlusconi, della Meloni, né del qualunquismo di Grillo, Casaleggio, Di Maio. Se lo facessimo, se tornassimo al governo in funzione ancillare, rinunceremmo per sempre alla possibilità di essere degli interlocutori primari, e potenzialmente maggioritari, per la società italiana. Qui non c’è questione di sfumature da contratto di governo alla tedesca o di tatticismo parlamentare, qui c’è un punto politico strategico che varrà in modo sistemico e che riguarda il futuro e l’esistenza della sinistra italiana. Non è vero che l’opposizione condannerebbe il Pd all’irrilevanza, come scrivono molti commentatori. Penso sia esattamente il contrario. L’opposizione, specie in un tempo in cui il consenso si dimostra sempre più fluido e mutevole, è un ruolo centrale e rilevantissimo in una democrazia rappresentativa. A patto di esserne all’altezza. Di essere in grado di smetterla di essere solo ceto politico e di saper mescolarsi in strada con umiltà, rimettendosi in gioco. Tirando fuori idee e coraggio. Per essere viva, la democrazia ha bisogno di alternanza. E per considerare il proprio voto efficace, i cittadini hanno il diritto, dentro le regole di una democrazia parlamentare, di veder concretizzati gli esiti delle elezioni. Il voto ha designato vincitori centrodestra a trazione leghista e cinquestelle. Entrambi avversari, irriducibilmente alternativi, delle idealità, dei valori, della concezione della democrazia di cui il Pd è orgogliosamente portatore. Sta a loro governare. Sta al Pd invece riconquistare la fiducia perduta, acquisirne di nuova, costruire nei quartieri di città e comuni, e in Parlamento l’alternativa necessaria alla giornata così brutta e così dura del 4 marzo.


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