Il festival dell’Unità quest’anno ha inteso dedicare uno spazio di confronto alla presentazione di un libro di sicuro interesse sulla figura di Orbàn, “Un despota in Europa” di Stefano Bottoni, un giovane professore di Storia dell’Europa orientale, a cui ho partecipato dopo una attenta lettura del volume e, soprattutto, dopo anni di impegno politico pubblico sullo stato precario della democrazia in Ungheria.

Intanto, il confronto ci ha consentito di sviluppare una riflessione seria in grado di colmare un vuoto interpretativo: la sfida di Orban è politica e culturale e per rispondervi bisogna conoscerne i tratti, porsi sul piano delle politiche pubbliche e non su quello della propria presunta superiorità morale.

La sinistra ungherese è stata al governo dal 1994 al 1998 e dal 2002 al 2010 con un unico mantra: l’applicazione pedissequa delle ricette turbocapitaliste occidentali e rigoriste europee, sugellate dall’ingresso nell’Unione nel 2004. È stata incapace di un modello autonomo e di modellare i paradigmi europei alla storia e all’identità magiara.

Con il suo ‘sistema della cooperazione nazionale’, Orban oppone all’idea liberale di integrazione sovranazionale una visione organicistica, corporativa, paternalistica e autoritaria senza risultare apertamente liberticida. Questo approdo è coerente con la storia recente d’Ungheria. Lo stato comunista era uno stato prescrittivo e punitivo con scarsi spazi di autonomia sociale e, in particolare, il governo comunista di Kadar aveva tratti peculiari persino per il blocco dell’est.

Era il più morbido nell’applicazione della dottrina comunista, consentiva la piccola iniziativa individuale, perseguitava raramente i nemici e assorbiva il dissenso nella clientela. Paradossalmente Orban che nasce come suo oppositore, ha mutuato da Kadar molti dei caratteri che, del resto, hanno consentito al leader comunista atipico ben trent’anni di potere.

La biografia di Orban è interessante per diversi profili. L’origine è contadina e la sua ascesa dalle campagne avviene attraverso una progressiva cooptazione meritocratica nelle scuole delle élite. Mentre i giovani ‘rivoluzionari’ delle élite budapestine di origine colta, borghese e urbana hanno legami familiari e culturali col regime di Kadar, Orban può cartterizzare la sua ascesa rivoluzionaria senza compromessi.

Il suo discorso chiave è alla prima commemorazione (divenuta possibile dopo la caduta del muro) di Imre Nagi e degli eroi della rivoluzione ungherese soffocata negli anni ’60 dalle truppe sovietiche: Orban dichiara l’incompatibilità tra comunismo e democrazia e spiazza le altre frange giovanili che invece avevano altre prudenze.

Gli stessi Stati Uniti a lungo preferirono i rivoluzionari in continuità con il potere precedente e con i medesimi ambienti elitari più che con i rivoluzionari in discontinuità totale. Altro elemento biografico che ne delinea una doppiezza evidente è nell’aver utilizzato la fondazione Soros in gioventù per studiare a Oxford e per finanziare il suo nascente movimento, il Fidesz (la Federazione dei Giovani Democratici). Utilizzato Soros, ne diventa il più fiero antagonista in una fase successiva.

Inizialmente il riferimento politico di Orban fu Kohl e quello culturale economico fu il reaganismo nella contrapposizione individuo società. Dunque il modello concreto un conservatore moderato come il cancelliere tedesco, quello culturale il liberismo della Thatcher.

Nella sua evoluzione, Orban trasforma la sua delusione nei confronti della democrazia occidentale in governance illiberale. In effetti, dobbiamo dirlo, le rivoluzioni dell’est sono complessivamente fallite, lasciando un coacervo di problemi economici e drammi sociali e un eccessivo multiculturalismo per la propria sensibilità. La conversione economica ha generato oligopoli e mancato raggiungimento degli standard occidentali per la maggior parte della popolazione. E la rabbia a lungo non ha trovato sfogo. Restano infatti saldi nella coscienza collettiva i diritti civili e il rispetto della proprietà privata ma i diritti politici, quelli democratici, sono barattabili.

Per questo, dal punto di vista economico, Orban utilizza le grandi aziende statali ungheresi come cavallo di Troia nella penetrazione economica nella regione dell’est e dei balcani e, a un tempo, nel proprio paese sostiene investimenti internazionali, sensibili alla stabilità politica, ai bassi salari, ai regimi fiscali agevolati. Come Kadar barattava la sua adesione alla politica estera e di sicurezza del sistema sovietico con ampi margini di manovra sulle scelte economiche interne, così Orban aderisce ai parametri economici e finanziari europei e del Fondo Monetario, rivendicando mano libera nel proprio paese per le scelte culturali e sociali e del tasso di democrazia istituzionale.

Orban è dunque una personalità politica pericolosa perché camaleontica. E va sfidata con coraggio e determinazione.

Chiesi a nome del gruppo dei socialisti e democratici al PE risposte forti e adeguate: durante la pandemia e i pieni poteri fattisi assegnare dal parlamento, dinanzi alla legge antiallarmismo, prima ancora quando nel 2015 il politico ungherese avanzò l’ipotesi di un ritorno alla pena capitale e inaugurò un referendum anti immigrati, e nel 2017 quando Orban ridusse l’indipendenza dei media e delle università.

Ho condannato a più riprese pubblicamente il silenzio complice del PPE invitando senza successo il gruppo dei moderati a Bruxelles a espellere Fidesz tra i propri membri.

Il Parlamento Europeo anche su nostra spinta ha approvato l’utilizzo dell’articolo 7 del Trattato per determinare la sospensione del diritto di voto del governo ungherese nel Consiglio Europeo, ma naturalmente serve che si esprimano i Capi di governo, non basta il voto del Parlamento.

Chiedo al governo Conte: intende muoversi in questa direzione?

Si può almeno immaginare una sorta di condizionalità negativa rispetto ai fondi de recovery plan per i governi che calpestano i principi fondanti della UE?


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