Nelle mie considerazioni, vi sono aspetti che ritornano in continuità con le altre riflessioni svolte nelle due ultime assemblee del Gruppo, – sui principali focolai di crisi internazionale e sui migranti -; è un metodo di lavoro giusto e utile nel Pd al Senato. Tra di noi si sviluppa un confronto sui grandi temi, si mettono in circolazione concrete esperienze di lavoro. Affronteremo scadenze nelle quali dovremo decidere avendo dietro un bagaglio comune.
Nel corso del mio intervento voglio affrontare alcune questioni che a mio giudizio sono decisive, e poi obiettivi di più ampio respiro e alcuni ravvicinati per il nostro lavoro.
Non aspettatevi – voglio dirlo subito – chissà quali brillanti novità.
Ci saranno aspetti critici sulla situazione dell’Unione, l’individuazione di non poche ombre. È giusto iniziare però da una bella notizia, da accogliere con soddisfazione: in Ungheria il referendum anti-migrazioni e contro le decisioni della Commissione dell’Unione Europea non ha raggiunto il quorum. È un segnale positivo: guai alla rassegnazione. Questo è in primo luogo il senso del messaggio che ci viene. Davanti a noi ci sono le difficoltà, anche serie, basta guardare, restando all’Ungheria, alla valanga di voti contro l’accoglienza dei profughi; ma ci sono anche le forze per superarle. Se le idee sono chiare, i progetti di portata strategica, i passi da fare graduali, coerenti e concreti.
Nel nostro tempo, alle prese con sfide che racchiudiamo nel termine “globalizzazione”, all’esigenza di governarla, anche di fronte – la poneva Carlo Pegorer – alla domanda su «quale sia l’interesse italiano», qual è la risposta di un partito di sinistra riformista e progressista?
Non è in alcun modo quella degli Stati nazione. All’interno di essi la democrazia si impoverisce, rischia di diventare solo forma, un guscio vuoto. E l’Europa stessa, se l’Unione non diventa una vera democrazia sovranazionale, perderà l’occasione di essere tra i protagonisti – non la protagonista, questo in ogni caso non potrà esserlo – del XXI secolo.
In un mondo che diviene più grande e complesso nell’evoluzione dei centri di decisone, noi siamo più piccoli; oggi l’8% della popolazione mondiale, nel 2050 il 5%. In quell’anno nessun singolo Stato dell’Unione sarà tra i primi al mondo per l’economia. L’UE invece sarà ancora in testa.
Per cui ogni volta che diciamo, di fronte alla crisi economica, alla bassa crescita, ai migranti, “l’Unione Europea non ce la fa, non riesce”, bisogna sempre aver presente e dire che “occorre un rilancio, un rinnovamento, diverse politiche europee”. Altrimenti si fa largo l’idea – regressiva e che dilata gli spazi ad una destra reazionaria – che la via, di fronte alle carenze dell’Unione, sia quella di ritornare nei confini, conosciuti e praticati per secoli, degli Stati nazionali.
Occorre dunque rilanciare l’Unione Europea, cambiare alcune politiche e insieme promuovere una riforma delle sue istituzioni: compiere passi verso una democrazia sovranazionale.
Prima di affrontare questo tema, per me prioritario non solo per il Pd ma per i socialisti e la sinistra europea, una parola su un’altra questione, sollevata da Alessandro Maran nella prima delle assemblee del gruppo, su cui sono pienamente d’accordo.
La traduco così: una democrazia sovranazionale europea è necessaria, ma non sufficiente per restituire all’Occidente democratico un ruolo effettivo nello scenario globale. Il minor peso dell’Occidente – ancor più dell’Europa – dipende da peso demografico e incidenza sul Pil mondiale. Si tratta allora, prima di tutto, del rapporto, da rinnovare, qualificare, rafforzare tra Unione Europea, Canada e Stati Uniti. Coinvolge le relazioni economiche e commerciali: dal Trattato commerciale con il Canada, da ratificare rapidamente, alle difficoltà del TTIP (Il Trattato commerciale con gli Stati Uniti), da realizzare in modo giusto, ma da realizzare. Chiede una revisione del ruolo della Nato, in un contesto che non è più quello della guerra fredda, ma nel quale esplodono conflitti, terrorismo, minacce non sottovalutabili.
Ho ascoltato riflessioni su temi di così grande rilievo in Commissione Affari Esteri, ad esempio da parte del senatore Paolo Corsini.
E’ urgente, non solo indispensabile una riforma dell’ONU, purtroppo non ancora pervenuta. Ci viene sollecitata la necessità di un coordinamento, di una cooperazione rafforzata in materia di sicurezza tra i paesi dell’Unione Europea disponibili, per far fronte alle nostre responsabilità, senza una delega – oltretutto non più voluta – agli Stati Uniti. Ha poco senso criticarli alternativamente per la presenza o per l’assenza, nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Sono tematiche già affrontate da Gian Carlo Sangalli e Nicola Latorre: sono d’accordo con le loro analisi, quindi mi limito a questo cenno e ad una sottolineatura. L’uscita del Regno Unito dall’Unione, il ruolo che resta determinante della Turchia, rendono al tempo stesso più urgente una revisione della Nato e la creazione di nuove basi di cooperazione tra Unione Europea e Nato riguardo a strumenti e forze di Difesa.
Dobbiamo avere presente che su questa strada un ostacolo politico tra i grandi Paesi, si chiama principalmente Francia: dobbiamo convincerla e farla dislocare su altre prospettive. E non si deve sottovalutare l’assurdità della situazione attuale, evidenziata dalla stessa indagine conoscitiva delle nostre commissioni Difesa, Esteri, Politiche dell’Unione Europea, di un paio di anni fa: la spesa complessiva dei 28 paesi dell’Unione Europea (considerando quindi anche il Regno Unito) per la sicurezza e la difesa, è terza al mondo, subito dopo USA e Cina. L’esito oggi è però quello che si vanificano sia gli obiettivi di efficacia che quelli di efficienza: ci troviamo di fronte a doppioni di mezzi e a sovrapposizione nei tagli per il risparmio, come nelle dislocazioni delle forze, tanto da non smentire la celebre e durissima frase di Kissinger: “l’Unione Europea è un gigante economico, un nano politico, un verme militare”.
La Brexit è stata una sconfitta. Ha messo in evidenza la punta di un iceberg, costituito da una situazione di crisi dell’Unione. E l’andamento lento con cui si sta affrontando l’uscita – in primo luogo per scelta del Regno Unito -, con cui si continua a vivacchiare in un’assurda e artificiosa normalità non aiutano nel ritrovare slancio e fiducia. Quanto mai necessari.
Nel suo recente discorso sullo “Stato dell’Unione” (il 15 settembre scorso) il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha detto testualmente: “La nostra Unione europea sta vivendo, almeno in parte, una crisi esistenziale”. Cosa l’ha determinata? L’andamento dell’economia e la bassa crescita: da quasi 8 anni (più di quanto è durata la Seconda guerra mondiale) una crisi non nata in Europa, ma affrontata male dall’Unione – austerità e rigore, mancati interventi pubblici per lo sviluppo – hanno prodotto una generale crescita di disoccupazione e di lavoro non stabile; scarsa solidarietà tra gli Stati; egoismi nazionali; differenziazioni tra Nord e Sud (i paesi mediterranei), divisioni politiche su obiettivi anche di breve scadenza con le nazioni dell’Est; poca intesa tra governi nazionali e istituzioni europee.
Al tempo stesso in questi anni di crisi e difficoltà si è avuto il fenomeno, comunque assai più ampio che in passato, delle migrazioni. Se n’è già discusso: mi riferisco di nuovo, senza soffermarmici, alle migrazioni economiche non governate, ai fallimenti dei modelli di integrazione europei finora costruiti, a quanti muovono in ricerca di asilo politico per via delle guerre nella sponda Sud del Mediterraneo e del Medio Oriente (Siria, Iraq e Libia, nelle quali vi è una responsabilità non irrilevante di Stati occidentali) e per povertà e carestie che affliggono i paesi africani. Mi riferisco al conflitto – che non possiamo rimuovere ma abbiamo il compito di tentare di risolvere – tra Israele e arabo/palestinesi.
In questo scenario va registrato e sottolineato come importante l’accordo per il nucleare iraniano. Non si può neppure pensare a cosa avrebbe significato in termini di ulteriore destabilizzazione e rischi di scontro armato, il prevalere anche qui di venti di guerra anziché di un’intesa diplomatica.
Sui rifugiati in cerca di asilo, ritengo che la scorsa settimana siano venute da Gianpiero Della Zuanna e Anna Finocchiaro indicazioni importanti, che dovremmo trasformare in una Risoluzione del nostro Gruppo per il Governo e le altre forze di maggioranza:
– insistere per superare la convenzione di Dublino;
– accoglienza e centri in cui anche in Italia – massimo 3 mesi -, avvengano rapidamente l’identificazione e la certificazione del diritto all’asilo;
– distribuzione attenta sul territorio, in collaborazione (e con incentivi necessari per farvi fronte) con i Comuni, in aggregazioni numericamente contenute;
– obbligo per chi viene accolto di imparare la lingua, conoscere la Costituzione e i fondamenti della cultura, di una formazione professionale; un impegno poi ad accettare di svolgere lavori di pubblica utilità;
– il tema, sul quale l’Italia in Europa non è nelle posizioni di testa, dei diritti/doveri di cittadinanza, per chi ormai vive, risiede, studia nel nostro Paese. Vi ha insistito, ed io concordo, la senatrice Cecilia Guerra. In Italia abbiamo poi un problema aperto, secondo me urgente e di grande rilievo: l’intesa, da siglare anche con i musulmani, sulla base dell’art. 8 della Costituzione.
Dal 2008, a quanto mi risulta, non esiste più neppure il Tavolo di confronto con le organizzazioni islamiche istituito dal Governo Prodi, presso il Ministero dell’Interno.
E’ un errore, quando non anche un pretesto, affermare che l’intesa non può essere realizzata per la pluralità e le divisioni che vi sono nelle Associazioni dell’islam italiano. L’intesa si stabilisce con chi accetta la Carta dei Valori, i diritti e doveri sanciti dalla Costituzione.
Intanto, va sottolineato che i finanziamenti alle Moschee vengono dall’estero, principalmente dall’Arabia Saudita e da altri Paesi arabi, così come la formazione degli imam, e che quest’ultimi nella stragrande maggioranza non parlano nei loro interventi in italiano.
Torno alle questioni europee, che più direttamente mi sono state affidate: ma questo era un nodo che sta di fronte all’Unione, tema chiave per il suo rilancio.
Ho già detto di un governo della crisi, da parte dell’Unione, piegato sui confini rigidi e ottusi dell’austerità, di un Patto di stabilità e crescita di cui le istituzioni dimenticano l’ultimo sostantivo. Sottolineo che si mette a ferro e fuoco la Grecia che non rispetta i criteri del rapporto deficit/Pil, mentre si passa sopra ad un surplus della Germania, che dovrebbe essere investito per ampliare i consumi, dare spazio alle attività produttive dei paesi europei.
Aggiungo che si è impotenti di fronte all’Ungheria che calpesta con le sue leggi i pilastri dei Trattati europei: l’autonomia piena della Corte Costituzionale e della Banca centrale, la libertà di stampa. Come, del resto, non si è in condizione di andare oltre parole di condanna per Stati che costruiscono muri, limitano o sospendono gli accordi di Schenghen.
Si tratta di una difficoltà ad agire che non è semplicemente data da non volontà politica, ma da una complessità di norme, procedure che finiscono per rendere impotenti. Ci tornerò tra breve.
Una nota positiva: è stata portata a termine una scelta per la quale ci siamo battuti. E’ già in corso di attuazione l’istituzione di una Guardia europea per il controllo delle frontiere esterne, terrestri e marittime. A breve sarà predisposto un Registro dei controlli sui viaggi da e per l’Unione Europea. Bisogna contestualmente rilanciare le iniziative per la libertà di movimento dei cittadini all’interno dell’Unione.

E’ indispensabile tuttavia mettere a fuoco, a questo punto, due questioni fondamentali che sono da cambiare, se si vuole un’altra Europa:
1) Il Bilancio dell’Unione è circa l’1% del Pil europeo. Negli Stati Uniti il governo federale dispone del 24%. La Bce non è la Federal Reserve, non ha i suoi poteri e i suoi margini di manovra. Il Bilancio Europeo sarà sottoposto a una riforma entro il marzo 2017: ci lavora un gruppo presieduto da Mario Monti. Il mandato è solo quello di analizzare e formulare proposte relative alle entrate: i Parlamenti nazionali possono ampliarne i margini di iniziativa ed affrontare anche il capitolo delle spese. Non bisogna essere passivi.
2) L’azione delle istituzioni europee è dominata dal metodo intergovernativo. È il Consiglio Europeo l’organo di maggiore rilievo politico, non la Commissione. Sono i 28 governi nazionali che decidono; tra qualche tempo, entro una fase che durerà 2 anni, ma non sappiamo a partire da quando, saranno 27.

Come si vede, i temi si intrecciano. Crisi economica, questione delle migrazioni, governance europea sono connessi.
La sinistra ancor di più non deve dimenticare una lezione della storia, resa attuale dalle sfide del presente: saper tenere insieme programmi, obiettivi, azioni per i diritti civili e politici – in questo caso i passi concreti per far avanzare il percorso di una democrazia sovranazionale – e quelle per i diritti economico-sociali: il rilancio di uno sviluppo con al centro il diritto al lavoro e l’ecologia, la partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti alla vita delle imprese, come avviene in Germania, le prospettive delle giovani generazioni, affinché non vedano arretrare le condizioni di vita.
Una moderna Sinistra plurale – per me questo deve essere il Pd e il socialismo europeo – non può rinunciare al ruolo di un intervento pubblico nello sviluppo, nel welfare, altrimenti libertà e uguaglianza resterebbero delle chimere. Ma questo intervento non è più gestibile all’interno dei soli Stati nazionali. Ha bisogno di una democrazia europea. Se si pensa un attimo ad alcuni dei temi prioritari, da affrontare – la riorganizzazione delle attività produttive e degli orari; il clima; la formazione – si vede come non siano più affrontabili su scala nazionale. In quest’ultima dimensione non può affermarsi un riformismo di sinistra, ma il mercato privo di regole di una globalizzazione senza governo.
Se volessimo usare un’espressione impegnativa, ma vera, dovremmo dire che occorre riformare il capitalismo del XXI secolo. Ma questa prospettiva è semplicemente non pensabile a livello di Stati nazionali.
La destra non ha questi problemi: fa sua la scelta che la dimensione globale, come è sotto i nostri occhi, si affermi senza un ruolo di indirizzo e controllo della politica e della democrazia. Non è il nostro orizzonte!

Non si avanza sulla strada di una democrazia sovranazionale, annunciandola: parlando e scontrandosi sugli Stati Uniti d’Europa, tra favorevoli e contrari, in modo teorico e astratto.
Si devono individuare i passi graduali condivisi; le alleanze e i consensi per realizzarli.
Il discorso di Juncker sullo Stato dell’Unione è una buona base. Sosteniamolo. Se ci riusciamo, arricchiamolo. Ha annunciato entro il marzo del prossimo anno, prima del 60° Anniversario dei Trattati di Roma, un Libro bianco con un progetto per l’Europa del futuro: è un riferimento anche per i Parlamenti nazionali, non semplicemente per le commissioni ad hoc.
Juncker indica anche azioni concrete per i prossimi 12 mesi. Mi limito a darne, per brevità, i titoli, soffermandomi per qualche considerazione su alcuni di essi.

a) Valorizzazione del modo di vivere europeo: i valori, ciò che ci accomuna, devono essere rafforzati come sentimento che unisce. Dalla Pace alla solidarietà, dalla libertà alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, sono valori che definiscono uno Stato di diritto.
L’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea recita: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. L’articolo 7 dello stesso Trattato dell’Unione prevede una procedura sanzionatoria nel caso in cui sussista “un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”. Basta leggerne poche righe per comprendere come in realtà si sia impotenti, sostanzialmente impossibilitati ad agire. Vi ho fatto cenno poco fa. Ecco qualche scampolo: nel caso in cui venga constatata “l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2… il Consiglio, a maggioranza qualificata, può sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio”…
“Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo, della Commissione europea, il Consiglio deliberando a maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro…
Il Consiglio verifica… se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi…
Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità…”.
Così come è organizzato l’articolo 7 non può funzionare. Ci eravamo assegnati – come governo e come Parlamento – il compito di proporre una sua modifica e aggiornamento, per metterci in grado di difendere e far attuare quei valori che rappresentano il fondamento dell’Unione, durante la presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Unione europea. Non ci siamo riusciti, ma l’impegno resta necessario. Proviamo a portarlo a termine.

b) Protezione dei nostri dati personali, con rigorose norme europee. Libera circolazione dei lavoratori. Lotta contro discriminazioni e razzismo. Indipendenza e buon funzionamento dei sistemi giudiziari. Apertura agli scambi con il mondo: ogni miliardo di euro di esportazioni determina nell’Ue 14 mila nuovi posti di lavoro e 30 milioni di posti di lavoro nell’Unione – cioè 1 su 7 – dipendono dalle esportazioni.
Parità di trattamento: deve esserci la stessa retribuzione per uno stesso lavoro, svolto nello stesso luogo.
Dice il Presidente Juncker: “L’Europa non è il Far West, ma un’economia sociale di mercato”. La Commissione vigilerà su questi pilastri fondamentali.

c) Impegno per salvaguardare la nostra industria, in particolare quella siderurgica. C’è una sua sottolineatura, che voglio richiamare: “Gli Stati Uniti impongono un dazio del 265% sull’importazione di acciaio cinese: invece in Europa alcuni governi insistono da anni per ridurlo. La Commissione vuole rafforzare i nostri strumenti di difesa commerciale: sì al libero scambio, ma senza ingenuità. Come gli USA dobbiamo avere la capacità di rispondere al dumping con efficacia.

d) Preservare il settore agricolo e il reddito di quanti ci lavorano, specie in una fase resa più difficile per le sanzioni imposte alla Russia e la decisione dell’embargo imposto da quest’ultima, specie ai prodotti lattiero/caseari. La Commissione mobiliterà 1 miliardo di euro.
E’ stata riformata la politica agricola comune: tra poco vi sarà una verifica dei suoi risultati. Resta decisivo inquadrarla in modo efficace nel contesto delle politiche ambientali e per la salute dei cittadini.

e) Difesa dell’Euro, la moneta unica. Pur nel vortice della crisi, nel 2009 i disavanzi pubblici nella zona Euro si attestavano ad una media del 6,3%, oggi sono inferiori al 2%. Quest’anno, grazie alla politica monetaria della Banca Centrale, i Paesi della zona euro hanno risparmiato 50 miliardi di euro di interessi.
La moneta comune non è sufficiente da sola per realizzare più condivise solidarietà e una sovranità sovranazionale, ma il suo venire meno spezzerebbe quanto costruito e interromperebbe il percorso già non spedito e facile per una vera democrazia europea.

f) Obiettivo del digitale, per l’economia e per i cittadini. Realizzare un quadro giuridico che attragga e faciliti investimenti nella collettività. Entro il 2020 ogni Paese e città europei sarà dotato di un accesso gratuito a internet senza fili.

g) Ratifica rapida dell’Accordo del clima siglato a Parigi. Finora lo hanno fatto solo Francia, Austria, Ungheria.

h) Il piano di investimenti per lo sviluppo da 315 miliardi di euro (finanziato con 16 miliardi di garanzie dell’Unione Europea) deciso un anno fa ha già raccolto, nel primo anno di attività, 116 miliardi di investimenti. 200.000 piccole aziende e start-up in Europa hanno avuto accesso ai prestiti; 100.000 persone hanno trovato un nuovo lavoro. La Commissione propone di raddoppiare la durata del Fondo e la sua capacità finanziaria, arrivando almeno a 500 miliardi di euro di investimenti entro il 2020. Inoltre si intende accelerare il progetto dell’Unione dei mercati dei capitali.
In questo quadro l’Italia – ma non è solo interesse nostro, bensì europeo – deve continuare ad insistere per un Piano di risorse anche private finalizzato alla modernizzazione delle infrastrutture terrestri, marittime e aeroportuali, così come operare per una diversificazione delle fonti energetiche e un’autosufficienza fondata su quelle rinnovabili e sul fotovoltaico.

i) Piano di investimenti da 44 miliardi di euro per l’Africa e il vicinato europeo: se vi è cooperazione da parte degli Stati nazionali, si può giungere subito a 88 miliardi. L’obiettivo è usare fondi pubblici come garanzia per attirare investimenti pubblici e privati e contribuire a creare posti di lavoro.

j) Progetto garanzia giovani. Ne hanno già beneficiato 9 milioni. Continuerà ad essere attuato, così come i programmi Erasmus, utilizzati da 5 milioni di studenti. A me piacerebbe che il nostro Paese sostenesse, a questo proposito, la proposta avanzata da Enrico Letta per un progetto Erasmus post laurea, rivolto a 1 milione di giovani, per un anno di apprendistato in un’azienda, in un Paese dell’Unione, diverso da quello di residenza.

k) Infine la proposta della Commissione di istituire un Corpo Europeo di Solidarietà, rivolto ai giovani, su base volontaria, per prestare aiuto laddove si determinino situazioni di crisi, come quella dell’arrivo dei rifugiati, o per l’esplodere di emergenze ambientali.

Il discorso di Juncker affronta anche temi di riforme politico/democratiche, di riorganizzazione della governance.
La difesa dal terrorismo, con un coordinamento dei servizi di intelligence e il potenziamento di Europol; un Sistema europeo di informazione per i viaggi, come meccanismo – insieme alla guardia costiera e di frontiera europea – per una maggiore sicurezza delle frontiere esterne.
L’auspicio per una cooperazione rafforzata nella Difesa e, da subito, un Comando Unico Europeo per le missioni estere dell’Unione; un Fondo Europeo per la Difesa, così da non essere subalterni neppure nella ricerca e nell’industria che opera in questo settore.
Il ruolo dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, da trasformare in vero Ministro europeo degli Esteri, così da rappresentare le diplomazie, oggi frammentate nei vari Stati, e avere un peso nei negoziati internazionali, a cominciare dalla Siria.
Un discorso simile dovrebbe secondo me essere fatto anche per le politiche di Bilancio e sviluppo di competenza dell’Unione.
È su questo terreno che l’Italia dovrebbe – come sistema Paese e dunque Governo e Parlamento – inserire le sue proposte, arricchire l’impostazione, sollecitare tempi rigorosi di decisione.
Ha ragione a mio giudizio Giorgio Napolitano che, in una sua recente intervista al Corriere della Sera, ha detto: i nostri principale interlocutori politici, ai quali riferirci e verso i quali concentrare una nostra iniziativa, se vogliamo camminare nella costruzione di una democrazia sovranazionale, sono il Parlamento e la Commissione europea.
Consolidare intanto, rendendoli permanenti, alcuni risultati conseguiti con le ultime elezioni europee: deve essere eletto Presidente della Commissione il candidato del partito o della coalizione che ha avuto il maggior consenso da parte di cittadini.
Approvare una legge per la elezione dei deputati europei, valida ovunque, non con 27 (prima 28) varie leggi nazionali: sta qui il fondamento della rappresentanza.
Il Parlamento europeo ha accresciuto le sue funzioni, ma bisogna andare oltre, semplificare i processi decisionali, rendere il Parlamento l’istituzione che indirizza e controlla, la Commissione l’organo di governo europeo, nelle materie che sono di competenza dell’Unione.
Non abbiamo solo il compito di stabilire le aree di competenza – tutto sommato su alcune è più semplice, mi riferisco a politica estera e di sicurezza, politiche sociali e dei diritti comuni, clima, macroeconomia, migranti – ma soprattutto il metodo di governo, che non deve continuare ad essere quello intergovernativo, incardinato sui governi nazionali, ma europeo.
Il Consiglio Europeo, formato dai Capi di Stato e di Governo, deve modificare radicalmente e presto le sue funzioni: non più quelle di governo sulle materie europee, bensì quelle di controllo del Bilancio dell’Unione e di decisione su ingressi di nuovi Stati nell’Unione Europea. Insomma si tratta secondo me di impostare una sua graduale trasformazione in Senato dell’Unione.
È nel contesto europeo che assume uno spessore incisivo, perdendo ogni vaghezza da “araba fenice”, il criterio della sussidiarietà e anche quello della proporzionalità.
Quando una competenza non è gestibile su di un terreno esclusivamente nazionale? Come si determina, con quale controllo anche sulla durata temporale, l’intervento europeo? Per una lunga stagione, davanti a noi, questo sarà uno dei campi fondamentali nella costruzione e nel funzionamento della democrazia sovranazionale.
Per la valutazione della sussidiarietà e della proporzionalità in merito alle politiche europee, il bicameralismo resta paritario, perché così è scritto nella legge di riforma e perché così è sancito negli stessi Trattati dell’Unione.
Il Senato dovrebbe allora rafforzare, vorrei dire oltre l’esito dello stesso referendum, questa sua dimensione da oggi, unendo attenzione prioritaria all’Unione, ai rapporti con il Parlamento europeo e con gli altri Parlamenti nazionali, intervenendo sulle politiche europee nel loro formarsi, coordinando l’uso dei Fondi e delle altre risorse europee, controllando – come devono fare i Parlamenti moderni – le politiche pubbliche. Il Senato da subito dovrebbe darsi strumenti, che ora non abbiamo, per poterlo fare.
Torno alle questioni più generali di riforma politica dell’Unione e della sua governance: Juncker dice che la Commissione vuole essere Politica. È la strada da seguire.
Su questi obiettivi, quali forze politiche e quali Stati possiamo trovare alleati? Il tema delle alleanze è decisivo.
Dopo l’uscita del Regno Unito, l’Italia ha un compito più forte da svolgere. Vorrei dire, in modo anche oggettivo. E’ un dovere, non una rivendicazione retorica. Con chi? Per la sua stessa collocazione geografica, per il suo essere un Paese europeo e mediterraneo, può e deve farsi carico di questa fondamentale dimensione e frontiera dell’Unione.
Nel Mediterraneo, nella capacità di contribuire alla sua stabilità, nell’affermarvi una cooperazione utile, nella condivisione della attuazione dei diritti umani, risiede molto di un futuro caratterizzato da pace, sviluppo, dignità per ogni popolo.
L’Italia può e deve cercare di unire, in convergenze politico-programmatiche, i Paesi europei del Mediterraneo, ma non «contro» o per un «isolamento» di quest’area Sud ed Est dell’Unione, bensì per rilanciare e cambiare l’Unione.
Con la Germania si può dissentire: ci si può confrontare in modo forte e polemico sulla visione dell’austerità, delle politiche in questa fase necessarie per lo sviluppo, attorno alle responsabilità politiche che non si assume in modo aperto in chiave europea. Si deve avere un confronto schietto, costruttivo, non subalterno.
Ma è con un accordo di ampio respiro, innanzitutto con la Germania, che si avanza nella realizzazione di una democrazia sovranazionale: la Francia va sollecitata, spinta a superare visioni di grandeur ormai arcaiche e retoriche se relegate nei ristretti confini nazionali. La Francia è naturalmente indispensabile, ma occorre che divenga un motore dei processi di costruzione della democrazia europea. Oggi spesso non lo è, al di là dei suoi governi. Né l’asse Germania-Francia, al quale il passato dell’Europa è debitore, è ora in grado di costruire prospettive per il nostro futuro.
A livello di forze politiche esistono grandi questioni e ritardi, che pesano sui socialisti – nel cui partito e gruppo parlamentare noi siamo – e in genere sulla sinistra europea: intanto una complessiva incapacità, nelle trasformazioni della società, di fronte alle innovazioni della rivoluzione tecnologico-scientifica, di ampliare, più spesso addirittura di mantenere i consensi.
Non guardiamoci soltanto i piedi, come Pd, per rendere più forti i nostri dissensi interni.
In Europa si assiste, in molti paesi purtroppo (dall’Ungheria, alla Spagna, alla Francia) ad un esito che vede i socialisti neanche più come secondo partito.
Spesso lo scontro è tra una destra repubblicana e una destra reazionaria, lepenista e neo-fascista. La mia convinzione – l’ho già detto in questo intervento – è che socialisti e sinistra siano ancora chiusi in quell’ottica degli Stati nazionali, che è ormai incapace di dare in concreto sicurezza sociale, sicurezza economica, sicurezza nella legalità della convivenza.
Può farlo un’Unione che diventi effettivamente democrazia sovranazionale.
Su questo insieme di valori, programmi, obiettivi ravvicinati dobbiamo realizzare una coerenza efficace nella Sinistra Plurale europea (torno al termine per me più giusto).
Naturalmente da soli non siamo in grado di dar vita all’impresa della costruzione di una democrazia sovranazionale: alla coerenza della sinistra, deve unirsi una Grande Intesa con i Popolari europei, i Verdi, i liberaldemocratici. La lotta è contro i populismi e le destre reazionarie, anti-europee.
Per il peso politico che riveste questo scenario dell’Unione, da rinnovare e rilanciare, è impensabile che non influenzi e incida anche nell’orizzonte delle politiche nazionali, nelle vicende e scelte che emergeranno all’interno degli Stati nazionali, nelle alleanze di governo.
È evidente, non si determinerà un unico modello, ma certamente – secondo me – si definirà un campo che chiarirà e fisserà la prospettiva delle alleanze possibili e perseguibili.
Un ultimo, breve, aspetto da mettere in evidenza: le nostre iniziative, come Parlamento italiano.
Secondo me, il Pd dovrebbe farsi protagonista della richiesta di una Sessione del Senato, a gennaio (non oltre per avere una voce e dare un contributo in vista dell’anniversario dei Trattati di Roma) sulla riforma della governance dell’Unione, del suo Bilancio, delle linee di Politica estera e di sicurezza anche alla luce del discorso di Juncker sullo Stato dell’Unione Europea.
Con la presenza non solo del nostro Governo, come è ovvio, ma anche della Commissione. Del resto si tratta di un insieme di proposte e di analisi unitarie e attorno a questi temi stanno lavorando le Commissioni Esteri, Politiche Europee, Difesa.
Lo sbocco più adeguato e impegnativo, a me sembra questo: l’assunzione di una impostazione, di una linea di fondo su tematiche di decisivo rilievo e spessore da parte del Senato.
Per altro verso, e in via più ordinaria ma anche di attività continuativa, è necessario coordinare l’azione dei senatori PD (come già è stato chiesto) e utilizzare in modo efficace le occasioni di coinvolgimento più generale, che hanno scadenze ormai stabili, di rapporto con il Parlamento europeo e con i Parlamenti nazionali. Mi riferisco alle riunioni della COSAC (l’organo che riunisce le commissioni Affari europei di tutti i Parlamenti dell’Unione); a quelle delle commissioni Esteri e Difesa, su sicurezza e relazioni internazionali; a quelle delle Commissioni Bilancio.
È possibile, utile e necessario che in questi appuntamenti noi poniamo con insistenza e decisione temi e proposte che, come Italia, e non solo per l’Italia, riteniamo urgenti e indispensabili: mi riferisco alle politiche di sviluppo; ai migranti; al Mediterraneo; al rilancio dell’Unione e della sua governance democratica.
E così che potremo tenere uniti impegno nella quotidianità e iniziativa coerente sulle prospettive di ordine più generale.


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