Signora Presidente, dieci anni fa, scrivendo un libro sui grandiosi cambiamenti demografici in Italia e in Europa, mi sono espresso favorevolmente sul matrimonio degli omosessuali, formulando invece forti perplessità sull’opportunità di riconoscere, come istituto giuridico, le coppie di fatto. Affermavo, inoltre, che occorre regolare la valenza pubblica dei diritti e dei doveri delle singole persone che convivono, ancora una volta a prescindere dal loro orientamento sessuale, perché la convivenza è diventata, anche in Italia, un passaggio normale della vita di coppia.

Per quanto riguarda le coppie di fatto, mi auguro che la mia opinione di allora possa essere tradotta in legge. Per fare questo, l’attuale testo base, al Titolo II, andrebbe però fortemente modificato, come propongono alcuni emendamenti anche da me sostenuti. Vanno infatti tolti gli automatismi, che configurano un novo istituto giuridico, in modo peraltro assai confuso. Nel testo si parla – ad esempio – di stabile convivenza, senza definire cosa sia la stabilità. Sembra di comprendere che si tratti di una convivenza che inizierebbe, in automatico, nel momento di fissazione della residenza anagrafica comune. Inoltre, va meglio precisata la natura individuale di quanto si va a fissare nelle nuove norme, generalizzando gli elementi contrattuali del patto che si va a stabilire tra i due partner.

Come ben chiarito dalla Corte costituzionale, a differenza delle coppie omosessuali, le coppie eterosessuali che vogliono stabilizzare e rendere pubblica la loro unione affettiva possono sposarsi, tanto più che questo Parlamento ha reso assai più flessibile il matrimonio, rendendo molto più semplice e rapido il suo scioglimento. Del resto, è sbagliato pensare al matrimonio come a un vecchio arnese ormai in disuso. Alcuni Paesi europei, araldi dei mutamenti coniugali e riproduttivi, stanno vivendo un vero e proprio revival del matrimonio. In Svezia, nel 2013 il tasso di nuzialità è stato del 5,3 per mille abitanti, ossia il 20 per cento in più rispetto al 2000 e il 65 per cento in più rispetto all’Italia nello stesso 2013.

Quanto alle unioni omosessuali, con la sua sentenza del 2010 la Corte costituzionale ha riconosciuto il loro valore costituzionale, ma non le ha equiparate al matrimonio. La Corte riconosce una differenza che risiede non tanto nel volere dei Padri costituenti, che evidentemente non potevano considerare fenomeni sociali che ancora non esistevano nella forma e nell’estensione attuale, quanto nel diverso status delle unioni omosessuali, che non possono accedere alla generazione naturale.

La Corte, così esprimendosi, ha colto la sensibilità del Paese, come mostrano gli ultimi mesi di sondaggi e interlocuzioni dirette con la gente. Gli italiani, specialmente i più giovani, sono in maggioranza aperti al riconoscimento giuridico delle coppie stabili omosessuali. Una larga maggioranza però, giovani, adulti e anziani, esprime invece forti perplessità sul coinvolgimento delle coppie omosessuali nella generazione e nell’educazione dei minori. Del resto, va ricordato che in quasi tutti i Paesi la regolamentazione giuridica delle unioni omosessuali ha proceduto per passi successivi.

Nel legiferare su questi delicati temi, la posizione dell’opinione pubblica va tenuta bene in conto, e non perché nel fare le leggi dobbiamo farci pilotare dai sondaggi, ma poiché parte di queste leggi sarà con tutta probabilità a forte rischio di referendum; un referendum che, con l’auspicabile approvazione delle riforme costituzionali, potrà essere valido con un quorum molto più basso di quello attuale (oggi ricordo che sarebbe il 35 per cento).

Poche settimane fa, in Slovenia, una società secolarizzata, dove più della metà dei bambini nasce fuori del matrimonio, una larga maggioranza referendaria ha abrogato il matrimonio omosessuale, pur mantenendo una legge sulle unioni civili tra persone delle stesso sesso.

Quindi, a noi spetta il difficile compito di tenere sullo sfondo le nostre convinzioni personali, interpretando la sensibilità del Paese approvando una legge che non contrasti con il pronunciamento della Consulta e contemperando le aspirazioni di tutti i soggetti coinvolti, partendo da quelli più deboli che – come ha ricordato Monica Cirinnà – non hanno voce e possono parlare solo attraverso di noi.

Fra questi soggetti deboli, non possiamo dimenticare le donne che accettano di fare da gestanti per altri: è una pratica che viene vista in modo negativo da larghissima parte dell’opinione pubblica e del movimento femminista, che proprio oggi si ritrova al Parlamento francese per condannare questa pratica, oltre che dal Parlamento di Strasburgo. È una pratica permessa peraltro in pochissimi Paesi, dove la donna si trova spesso a essere soggetto passivo, dovendo – ad esempio – accettare da contratto di abortire se ciò viene deciso dal committente o a non avere alcun rapporto con il bambino frutto della gravidanza.

Il combinato disposto tra l’attuale testo base e la possibilità di usufruire all’estero della surroga di maternità determina qualcosa di diverso dall’adozione del figliastro. Per le coppie di uomini omosessuali, infatti, l’unico modo per avere un figlio, da loro peraltro percepito come pienamente proprio e condiviso, è usufruire della gravidanza di un’altra donna oppure di due donne, esattamente come accade per una coppia eterosessuale quando la donna non è in grado di avere un bambino.

Per questo motivo, un gruppo di trenta senatori ha presentato un emendamento, a mia prima firma, che per i cittadini italiani rende illecita la surroga di maternità anche se compiuta all’estero, sia per le coppie omosessuali sia per quelle eterosessuali, dando tuttavia al giudice la possibilità di registrare in Italia l’atto di nascita del bambino con l’indicazione del genitore biologico, in nome del superiore interesse del minore.

Credo che dobbiamo fare una legge buona, con grande attenzione, tenendo come faro la Costituzione e il bene di tutti i soggetti coinvolti, soprattutto di quelli che non hanno voce. (Applausi dal Gruppo PD).


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