Il punto dolente del documento di Bersani è la forma del partito

Ho letto con attenzione il documento “Fare il Pd”. Molto mi convince e molto non mi persuade.
Mi convince l’analisi sul fenomeno dell’antipolitica, perché non se ne attribuiscono le ragioni solo alla corruzione, a tutta la retorica della Casta e dei privilegi, per intenderci, ma si individuano nell’impotenza della politica, nella sua inefficacia, nella sua impossibilità ad agire, a fare.
E dunque, come si dice bene, ci vuole coraggio nelle riforme istituzionali e della Costituzione. Riformare la politica. E se questo è il punto, il governo del cambiamento significa: alleggerire, semplificare, sburocratizzare, rendere possibile l’azione in un contesto ormai quasi post-democratico. Cioè avere una visione riformista e modernizzante, in primo luogo della politica.
Il secondo punto che mi ha parzialmente convinto è quello sociale, del lavoro, dove si coglie la complicatezza del bipolarismo sociale. Sì, qui trovo delle assonanze tutt’altro che estrinseche con la dottrina sociale della Chiesa, quella terza via tra proprietà e lavoro, tra Stato minimo liberale e riforma del welfare, si direbbe oggi. Aiuto al lavoro in chiave tutt’altro che assistenziale, ma di rilancio delle imprese.
È una vera attenzione – pratica e tutt’altro che retorica – che ci viene dallo stesso pontificato di papa Francesco. Una grande occasione per la sinistra, come si direbbe in gergo, si apre una “prateria” con la fine dell’appoggio della Chiesa al centro destra, si chiude la fase Chiesa/politica, e anche il significato gentiloniano che presuppone lo scontro sui valori non negoziabili. Noi dobbiamo intervenire sulla riorganizzazione dell’area cattolica, non in modo strumentale e solo tattico ma comprendendo che lì ci sono aspettative e domande vere in sintonia con quello che deve essere il senso autentico della nostra identità (pensiamo al viaggio del papa a Lampedusa). Vorrei su questo più spazio al Terzo settore e più consequenzialità sulla sussidiarietà.
E, per finire, veniamo al punto dolente, che non mi ha convinto, quello della forma partito. È vero: è sterile il dibattito tra partito liquido e partito pesante, primarie sì e primarie no. Ma è ancora più sterile quello tra partito del leader e partito collettivo.
Il leader ci vuole sempre – non è questo il problema – e soprattutto in momenti di crisi sistemica, di cesure storiche, come quella che stiamo vivendo, pensiamo a tutto l’800 e il ’900, al Risorgimento, alle crisi post belliche – della I e della II guerra e di leader ne abbiamo bisogno tanto più oggi in epoca di post-modernità e post-democrazia. Leader forti ci vogliono per non doverne subire di pessimi. E poi la “Rete” – che ne sarebbe la causa – non costituisce una novità in questo senso, il suo peso non va ingigantito. Il problema da cui partire è come è cambiata e umiliata la natura della politica novecentesca, in modo irreversibile.
La crisi dei partiti ne è la conseguenza. Non è la Rete che annulla le forme partecipative, è che queste sono cambiate e che queste nuove forme non si capiranno mai se non si connettono alla madre di tutte le cause: il limite della politica ormai irreversibile e anche sacrosanto, se fossimo stati noi ad agirlo.
La partecipazione c’è, io la vedo nei giovani che vivono gli spazi dei quartieri, che fanno volontariato, che vanno nelle Chiese, che studiano con passione…, basta stare dentro la vita per accorgersene. È la politica che non c’entra con tutto ciò. Quindi non è più vero che – come dice il documento – la solitudine dell’individuo si stempera nel “politico” come era successo all’origine dei partiti di massa novecenteschi, non è quel tipo di partito che riscalda i cuori e li dispone alla solidarietà.
Poi c’è poi la nostra storia specifica: rispetto alla Germania che giustamente prendiamo come riferimento, è assai diverso il nostro rapporto con i partiti. Lo ricordiamo, nel 2013 il Pd compie 6 anni, la Spd 150 anni, mentre la Cdu viene dal partito cattolico più antico d’Europa, il Zentrum nato nel 1870. Ed è per questo che le Grosse Koalition sono altra cosa dalle larghe intese, sperimentate e decisive negli anni cruciali di Weimer.
Per concludere, il problema è la separatezza, la distanza, l’incomprensibilità, l’impotenza della politica e del partito, ma questo non significa che esso debba veicolare contenuti deboli, anzi il contrario: per avere contenuti forti, bisogna far entrare la vita (la destra nei momenti di crisi ne ha di fortissimi – terra e sangue, famiglia e proprietà) e noi dobbiamo averli, invece siamo politically correct, ma per avere valori forti bisogna viverli davvero e allora bisogna far entrare la vita concreta delle persone nella politica.
Dobbiamo chiederci come fare sì che il civismo, espressione della società civile, non sia la ciliegina, il prezzemolo sulle primarie d’apparato. Del resto la società civile dà il peggio se la politica viene meno al suo compito. E allora qui c’è la grande scommessa del Pd, che non è quella di ri-partire, quanto piuttosto quella di partire, perché l’amalgama non riuscito è il problema da sempre.


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