Le città sono la carta non ancora giocata dall’Italia per uscire dalla crisi. All’inizio della Seconda Repubblica sembrò possibile giocarla, poi è calata la notte, le politiche urbane sono diventate asfittiche e i governi nazionali le hanno sommerse con alluvioni normative, dai bilanci, alle procedure, gli appalti, la fiscalità, le aziende, gli assetti istituzionali senza alcuna idea strategica. Al contrario i grandi paesi europei sono dotati di stabili agende urbane che parlano di contenuti e non di leggi, e interagiscono meglio di noi con il lato positivo delle politiche europee di coesione.
Eppure, molte questioni nazionali sono imbrigliate nella dimensione locale. La crisi delle banche dipende in buona parte dai valori immobiliari gonfiati che oggi pesano sui bilanci come crediti non esigibili. La rendita finanziaria ha utilizzato come veicolo la rendita immobiliare fino all’esplosione della bolla. I dividendi sono andati comunque ai proprietari, lasciando ai sindaci, i deficit di infrastrutture. Oggi il mattone è fermo in attesa di ricominciare come prima, ma forse proprio la crisi richiede una svolta.
Il valore immobiliare può tornare a crescere solo se aumenta la quota ripartita a favore degli investimenti pubblici, non si devono più svendere i patrimoni pubblici, bisogna utilizzarli come leva per migliorare la qualità urbana, la dotazione infrastnitturale, l’edilizia sociale e per liberare l’economia dell’innovazione dal peso del mattone, per mettere in concorrenza gli operatori che realizzano normali profitti invece delle immeritate rendite del passato.
La realizzazione dell’Alta Velocità ha liberato tracce ferroviarie che potrebbero essere utilizzate per il trasporto locale, con una cura del ferro nelle aree metropolitane per dare una nervatura alla sciagurata disseminazione edilizia degli ultimi trent’anni. E anche nel software si creano occasioni formidabili: le tecnologie consegnano al passato l’uso proprietario dell’automobile e consentono di condividerla tra
diverse persone. Il servizio taxi scomparirà come la carrozza a cavalli.
Agli attuali operatori si garantiscano gli ammortizzatori sociali e le riconversioni professionali, come si fa con le fabbriche in crisi. Ma poi si scrivano le regole per la sharing economy della mobilità che può miglìoare la vita dei cittadini e creare nuovi posti di lavoro. Il traffico è un mercato che non va in recessione.
Il polo tecnologico nell’area dell’Expo è un’ottima scelta, ma rischia di diventare una cattedrale nel deserto, poiché assorbe da solo l’investimento in ricerca che era destinato all’intero sistema universitario nazionale. I ricercatori italiani non ricevono più finanziamenti dallo Stato, mali ottengono dall’Europa e di conseguenza vanno a spenderli all’estero. Quello che si è fatto a Milano dovrebbe essere replicato in dieci grandi città italiane, con priorità al Mezzogiorno, per farne i pivot dell’innovazione del Paese. L’inventiva che si è espressa ieri nei distretti industriali, andrebbe rielaborata oggi nelle città come fabbriche della produzione immateriale.
Grandi paesi in Asia e in Sudamerica investono nella tutela e nel restauro dei beni culturali provocando un’impennata nella domanda di formazione e di servizi. Un’offerta specializzata dell’Italia avrebbe il vantaggio competitivo del brand che viene dalla sua storia. E invece il ministero prosegue la svalutazione professionale di quel “metodo italiano” studiato in tutto il mondo e ideato dai Bianchi Bandinelli, Brandi e Argan.
Prevale da tempo l’illusione stracciona di fare i soldi con il merchandising e i cocktail nei musei. Invece una ricca economia dei beni culturali può nascere solo sulla tutela, promuovendo prestigiose scuoleinternazionali e nuove imprese capaci di esportare in nostro sapere dell’antico.
Ma l’Ocse ci ricorda che al 70% della popolazione mancano le competenze necessarie per vivere nel nuovo mondo. In un paese siffatto le scuole non dovrebbero chiudere mai, dovrebbero essere aperte giorno e sera, non solo per l’istruzione dei figli maper riportare sui banchi anche i genitori. E’ la promessa mancata dalla legge della Buona scuola, da riprendere anche come politica per le città. Le scuole aperte devono essere i luoghi più belli dei quartieri, i laboratori dell’apprendimento sociale, gli spazi per la libera espressione dei linguaggi giovanili, le strutture per l’alternanza scuola lavoro nelle filiere creative, i centri di formazione per la riconversione ecologica, le porte aperte per i bambini e gli adulti migranti.
L’accoglienza dei migranti è la questione che decide del futuro europeo, ma si gestisce nelle città, oggi purtroppo con provvedimenti sporadici, in gran parte inefficaci, talvolta infangati dal malaffare, come si è visto con Mafia Capitale.
Non esistono scorciatoie, né soluzioni settoriali, occorre un rilancio del Welfare urbano, un ripensamento delle finalità dei servizi e delle modalità organizzative. Se funzionerà per i migranti migliorerà anche per gli italiani. Non ce la possono fare da soli i sindaci, senza un’inversione della tendenza che ha finora offerto tante norme e pochi soldi.
Ha ragione Chicco Testa a proporre su queste pagine una politica nazionale per le città. Se il governo l’annunciasse darebbe un grande aiuto ai candidati di centrosinistra. Viceversa dovrebbero venire idee nuove dai programmi di governo locale, soprattutto dalla capitale. Rutelli e Veltroni hanno dimostrato che a partire dal buongoverno cittadino si poteva realizzare un nuovo miracolo italiano, hanno avuto il merito di guidare Roma nell’interesse generale del Paese, tanto da ottenere la candidatura alla Presidenza del Consiglio. Di quegli anni si possono rivedere criticamente tante cose, ma fu sempre forte la passione progettuale. Negli anni successivi è prevalso il piccolo cabotaggio dei notabili che ha fatto emergere il lato oscuro della città. Come disse Theodor Mommsen a Quintino Sella prima di Porta Pia: “Ricordatevi che Roma si può governare solo con una grande idea”.

 


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