In questa settimana si è molto discusso, in relazione alle opportune scelte di governo di limitare le attività produttive, di quali siano da considerarsi filiere essenziali, da continuare a garantire, e quali invece quelle di cui per qualche tempo possiamo fare a meno.

Non entro nel dibattito aggiungendo o sottraendo categorie, confido che il dialogo con le parti sociali continuerà a individuare soluzioni via via più adeguate – mi limito a sottolineare solo che a ogni lavoratrice e a ogni lavoratore che continua la propria attività occorre garantire condizioni di lavoro in piena sicurezza, senza approssimazioni e deroghe, per il bene di ciascuna e ciascuno di loro, ma anche per tutta la comunità, la cui sicurezza abbiamo capito ormai bene dipende dal contributo di tutte e tutti, e questo è un obiettivo su cui anche il Parlamento deve agire e vigilare.

Quello che invece mi sembra utile è guardare oltre, a quando la crisi sarà superata e non dovremo dimenticare il dibattito di oggi. Dovremo anzi saperlo usare per ribaltare molte logiche con cui attribuiamo valore sociale ed economico a figure professionali, lavori, filiere.

Molte delle filiere che oggi consideriamo indispensabili e che continuano a garantire la continuità di forniture, approvvigionamento e servizi vedono impiegati lavoratrici e lavoratori che si trovano solitamente nei gradini più bassi del riconoscimento sociale, della retribuzione, dei diritti.

Chi raccoglie frutta e verdura, chi lavora nella distribuzione e nel carico/scarico dei mercati, i rider che ci consegnano beni più o meno indispensabili a domicilio, chi pulisce le strade e chi le nostre case, la manifattura che continua a produrre beni, chi continua a garantire l’accessibilità di contact center e di ogni forma di assistenza al consumo, chi si occupa dei nostri anziani, dalle badanti al personale delle case di cura, fino al personale delle forze dell’ordine e di publica sicurezza, o agli infermieri, che ci accorgiamo quanto siano essenziali solo nei momenti di bisogno, individuali o collettivi come in queste settimane.

Un mondo di lavoratrici e lavoratori che non conoscono pause, ma conoscono bene la precarietà, con le incertezze e le interruzioni che provoca alle esperienze quotidiane.

Persone che non possono permettersi di fermarsi, e quindi non possono sottrarsi dall’essere sfruttate. Che non praticano lo smart working, perché lavorano con le proprie mani, grazie alla capacità di sopportazione della fatica del proprio corpo. Cittadine e cittadini che hanno retribuzioni non dignitose, cui sono sottratti diritti, tutele e sicurezze, che troppo spesso non hanno nemmeno un contratto regolare.

Quando l’emergenza finirà, quando saremo riusciti a contenere il virus e quando avremo finalmente cure e vaccino, ecco in quel momento non dovremo dimenticare questi giorni. Non dovremo dimenticare cosa e chi ci è stato indispensabile, chi ringraziare (oltre a medici e personale ospedaliero tutto), di chi occuparci per garantire condizioni di vita e di lavoro giuste e dignitose.

Dovremo cambiare, ribaltare dicevo all’inizio, il modo in cui attribuiamo valore sociale a persone, funzioni, professioni. Dovremo garantire a tutte e tutti i lavoratori un retribuzione equa, dovremo saper allargare a tutte e tutti un esercizio pieno dei diritti del lavoro e di cittadinanza. Dovremo evitare che chiunque perda il lavoro per la crisi, come dicono in molti, anche seguendo gli utili stimoli di Mario Draghi, ma sapendo che solo questo non basterà.

In questa crisi in moltissimi casi gli ultimi sono stati i primi, e a loro deve andare la nostra riconoscenza, simbolica e concreta, oggi come domani.

È un programma politico, è un monito, è un dovere – per chi si riconosce in valori riformisti e di sinistra sicuramente, ma credo per tutto il Parlamento – di cui dovremo saper assumerci la responsabilità.


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