Pietro Ichino è il padre del Jobs Act. Fu lui il primo a proporre il contratto a tutele crescenti nel lontano 1996. Lo tradusse in disegno legge nel 2009, quando venne eletto senatore del Pd. Alle elezioni del 2013 si presentò con il partito di Monti. Poi, quando venne eletto segretario del Pd Matteo Renzi, che aveva fatto proprie le sue idee, rientrò nel Pd, per collaborare alla loro traduzione nel Jobs Act. Non sarà ricandidato.
È una sua decisione o non glielo hanno chiesto?
«Un primo motivo è di correttezza politica: il Pd ha fissato il limite delle tre legislature, e io ho fatto tre legislature».
La prima rìsale a 35 anni fa. E nelle file di un altro partito, il Pci.
«E’ vero, ma anche quella contribuisce a riempire un mio curriculum. Ho sempre detto – questo è il secondo motivo della mia scelta – che sono uno studioso prestato alla politica. Ho ancora qualche cosa da offrire alla politica, ma posso rendermi più utile, in questa fase, nella veste di professore e di opinionista».
Renzi o altri l’anno chiamata per informarlo?
«Io ho informato loro che non intendevo ricandidarmi».
Nelle liste del prossimo Parlamento ci sono pochissimi professori o intellettuali. Perché?
«Forse perché tutti si sono accorti che il mestiere dello studio¬so e quello del politico sono diversi. Lo studioso deve dire tutto ciò che emerge dai suoi studi senza preoccupazione circa l’impopolarità di quel che dice. Il politico ha il compito di raccogliere il consenso sulle idee giuste anche a breve termine, e anche al costo di qualche compromesso. È un mestiere difficile, per molti aspetti incompatibile con quello dello studioso e sempre con quello dell’opinionista».
Perché?
«Perché il pubblico cui lo studioso e l’opinionista si rivolgono deve poter fare affidamento sulla loro indipendenza rispetto alle forze politiche. Né l’uno né l’altro possono essere soggetti a una disciplina di partito o di gruppo. Cui invece il buon politico deve assoggettarsi, se vuole che la sua azione sia efficace».
Qual è il bilancio di questi anni da parlamentare?
«Non spetta a me farlo. Osservo solo che sono entrato in Senato nel 2008 con un progetto di riforma del lavoro che allora molti consideravano irrealizzabile, e ne esco dieci anni dopo con quel progetto per almeno tre quarti realizzato. E con due riconoscimenti della bontà del mio lavoro in Senato, a cui tengo molto: il premio del Riformista per il miglior parlamentare del 2009, e il titolo di “parlamentare-martello” assegnatomi ultimamente dal Foglio».
C’è qualcosa che l’ha delusa?
«Constatare quanto poco le amministrazioni siano pronte a implementare le nuove leggi che il Parlamento vara; e, per altro verso, quanto esse siano più potenti del Parlamento. Poi, constatare quanto la nostra politica viva di improvvisazione. Nei Paesi più evoluti le riforme vengono progettate accuratamente e, ove possibile, partono da sperimentazioni limitate, perché possano esserne valutati gli effetti. Nella nostra politica manca quasi del tutto il metodo sperimentale».
È meglio fare il professore o il senatore?
«Dal punto di vista della qualità della vita, è molto migliore quella del professore. Certo, meno ricca di emozioni».


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