L’iniziativa franco-tedesca tenutasi ieri con la presenza virtuale dei due leader di governo Macron e Merkel è una inattesa novità nel quadro politico europeo con conseguenze importanti di scenario nel mondo post Covid. Inattesa perché da almeno due anni i due paesi europei, storicamente rivali e dalla caduta del muro invece tendenzialmente alla testa dei processi politici del continente, parevano non collimare nelle scelte di fondo, nell’orizzonte strategico.

Per un certo tempo, infatti, Merkel e Macron sembravano coltivare un’esigenza opposta: la Merkel ancorata alla dinamica interna di un elettorato tendenzialmente conservatore con rischi di sconfinamento populistico nazionalista e riluttante a funzioni di guida, coi relativi oneri, in Europa, e Macron al contrario con la necessità di sfuggire alla crisi di consenso dei gilet jaunes attraverso lo spolvero dell’antica grandeur francese e il recupero di una funzione egemone in Europa.

Con la conseguenza ultima, nei mesi della pandemia virale ed economica che la Germania trovava nell’oltranzismo dei paesi del rigore un facile alibi al disimpegno e la Francia finiva per capeggiare di fatto un fronte tendenzialmente mediterraneo e più orientato ad un’Europa di solidarietà e progetto comune. La diversità di approccio finiva, come noto, nel compromesso del 23 aprile e l’affidamento alla Commissione della definizione di un piano di rilancio dai contorni tutti da chiarire.

Con ieri si apre una nuova fase che provo a valutare senza pregiudizi nei lati che mi appaiono positivi e in quelli che lo sono meno. L’iniziativa franco-tedesca sancisce il bilaterale tra i due principali stati come motore dell’integrazione europea, per un verso superando l’impasse della Commissione che diventa, se va bene, mediatrice tra gli Stati o, se va male, notaio della volontà di quelli egemoni.

La cooperazione intergovernativa tra forti, direbbe qualcuno, a scapito del metodo comunitario. Ma su questo punto, con realismo, è la storia di questa architettura ircocerva che è l’Europa a richiedere che nei momenti di crisi il rilancio sia affidato alla spinta di un nucleo di stati propulsori, perché più potenti o lungimiranti. Per cui, semmai, oltre a sostenere la battaglia di un approfondimento del metodo comunitario, può dolerci che stavolta l’iniziativa cardine sia rimessa a soli due stati e non a un più ampio novero come in altri momenti della storia dell’integrazione.

Dunque, superata l’obiezione di principio, veniamo al merito delle questioni.

Primo elemento non scontato: si ribadisce fermamente la necessità di un piano di rilancio comune, fatto da bond emessi dalla Commissione e garantiti dal bilancio europeo, e dunque garantiti comunemente non in funzione della quota di destinazione ma in ragione della quota di partecipazione al bilancio UE (l’11% per l’Italia, il 27% della Germania).

Secondo elemento ancor meno che scontato e su cui infurieranno ancora i falchi del nord: la Merkel ribadisce che i finanziamenti non ‘debbano pesare sui debiti’ di chi li riceve, cioè deve trattarsi di grants, di sovvenzioni e non loans, di meri prestiti per quanto agevolati nel tasso e nelle garanzie. Questo è un punto nodale che suggella un cambio di prospettiva della Germania ma su cui la partita è ancora aperta. Il 27 maggio la Commissione europea dovrà presentare la proposta ufficiale e, per quanto abbia già valutato positivamente la posizione franco-tedesca, bisognerà resista a spinte contrarie e ancor più poi il Consiglio europeo a cui la decisione ultima spetterà nella calura estiva dovrà confermarlo.

Terzo elemento: il quantum di 500mld. Merkel e Macron fanno uno sforzo importante ma di misura non sufficiente. Parlamento e Commissione, con diversi accenti, avevano fino ad oggi parlato di una somma oscillante tra 1000 e 2000mld di euro. Ho la percezione che la quota ben più bassa indicata ieri dai due leader politici sia già un compromesso offerto ai paesi del rigore per far loro accettare l’embrionale mutualizzazione del debito. Si tratta tuttavia di un ammontare importante ma inadeguato alla fase e, se come ritengono Conte, Gentiloni e Sassoli rappresenta non un punto di arriva di una base di trattativa, allora è certamente un’ottima piattaforma da implementare.

Quarto elemento: il fattore tempo. Se si ritiene, come appare logico per mobilitare speditamente risorse per la ricostruzione, che non si possa attendere il principio del prossimo anno, quando naturalmente sarebbero esperite le procedure di definizione del nuovo sestennio da parte del terzetto Parlamento Consiglio Commissione, bisognerà escogitare una soluzione ponte che consenta un anticipo consistente di risorse e un anticipo all’estate che ci metta subito nella condizione di rialzarci. Su questo tema, il commissario Gentiloni mostra una consapevolezza e anche un ottimismo che auspico, stimandone le doti di grande mediatore.

Quinto e ultimo elemento, forse il più pericoloso.

Nessuno coltiva l’illusione, e sarebbe persino sbagliato in radice, che gli stati maggiormente beneficiari dei Recovery Fund siano nella più assoluta libertà e discrezionalità nella spesa. Non si può immaginare ad esempio che fondi destinati al recupero di competitività e a rimettere in moto lo sviluppo soprattutto nei settori più danneggiati dalla crisi da coronavirus, siano orientati a finalità loro estranee.

Non vorremmo tuttavia che questa giusta preoccupazione aprisse il varco a forme, già conosciute al ‘vecchio Mes’, di commissariamento dei paesi più in difficoltà, asservendoli per questo tramite a riforme draconiane. Le dichiarazioni di queste ore del capogruppo popolare Weber, del vice Presidente della Commissione Dombrovskis e del premier austriaco Kurz (il front leader della coalizione del rigore) non fanno dormire sonni tranquilli e impongono al nostro governo un lavoro diplomatico senza sosta e saldo nei principi di fondo.


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